La domanda principale che dobbiamo porci è perché Vladimir Putin non abbia attuato il “Blitzkrieg” in Ukraina ancora nella primavera 2014, quando accadeva il colpo di Stato (il Majdan) per mano di una banda di criminali, finanziata e diretta dalla diplomazia americana in collaborazione con i servizi segreti di Polonia, Germania e le Repubbliche baltiche. Avrebbe ricevuto poca resistenza da parte di un esercito ucraino quasi inesistente ed avrebbe aderito alle norme costituzionali interne, che permettevano al presidente esautorato Viktor Janukovich di difendere l’ordine e la legalità delle istituzioni, chiedendo aiuto agli alleati esterni. Nel 2014 la Russia era economicamente più forte di adesso grazie al prezzo alto del barile e il suo esercito vantava già un livello di tutto rispetto, per cui si potrebbe presuppore che l’intervento sarebbe stato di basso impatto per entrambe le parti, a maggior ragione rapportato alle perdite materiali e le vittime che si stanno registrando in questi giorni. Sono passati esattamente otto anni dall’installazione di un regime ucraino pro-americano che “ha creato un paese fondato su menzogne, corruzione, violenza, demagogia, rapine, russofobia e nazismo, lontanissimo anni luce da ogni idea di civiltà europea” (*). Tanti hanno accusato Putin di aver tradito le legittime aspettative delle Repubbliche separatiste di Donetsk e di Lugansk, lasciando la popolazione autoctona russa esposta al continuo stress del terrorismo etnico repressivo , e diversi hanno temuto che Putin fosse diventato troppo accondiscendente e paziente con i nuovi megalomani di Kiev, che si dilettavano a sfidare la memoria storica della Russia e la sua sicurezza.
Non è chiaro perché Putin abbia atteso così a lungo, ma la tesi più ragionevole è che prima di intervenire in Ukraina “lo statista con nervi d’acciaio” avrebbe voluto studiare e preparare il quadro geopolitico nella sua interconnessione più complessa, garantendo la sicurezza russa da tutti i lati, fra cui era molto importante assicurarsi posizioni dominanti in tutti i quattro mari, da cui la Mosca poteva essere attaccata in modo fatale, ossia senza il tempo necessario per dare una risposta. Questo spiega la tempestiva riannessione di Crimea ancora nel marzo 2014, svoltasi in conformità formale sia del Diritto costituzionale ucraino che del Diritto internazionale in materia di Autodeterminazione dei popoli, dato che la penisola storicamente russa è la garanzia del dominio militare in Mar Nero, e il successivo intervento in Siria nel 2015 per liberarla dagli invasori e assicurarsi la presenza nel Mediterraneo orientale attraverso il golfo strategico di Latakia, mentre le posizioni dominanti nel Mare del Nord e nel Baltico erano già garantite. E’ da notare come lo schema destabilizzante applicato dal Deep state americano in Siria era identico a quello applicato in Ukraina, solo che con partecipazioni e conseguenze diverse, essendo entrambi i paesi strategici per l’accerchiamento e l’indebolimento della Russia secondo la dottrina geopolitica di Brzezinski – “il genio del male”, le quali direttive sono state puntualmente eseguite sia da Bush jr che da Barack Obama.
La preparazione strategica, che passava anche dal consolidamento dell’esercito russo sotto il commando del ministro della Difesa Shoygu, oltre alla dotazione con nuovi armamenti d’avanguardia ultra efficaci e con la dottrina strategica di gen. Gerasimov, non escludeva ovviamente le tentazioni di Putin di usare e sollecitare tutte le vie diplomatiche per instaurare tregua e pace nelle Regioni separatiste, ma la via diplomatica non faceva parte né della volontà della Nato né ancora meno di quella del governo ucraino, che si faceva beffa dei Protocolli di Minsk. Sarebbe bastato un accordo sottoscritto fra le parti che mettesse il veto all’espansione della Nato in territori ucraini e imponesse il ritiro delle truppe ucraine dalle Repubbliche separatiste, a cui invece andava riconosciuto, secondo la Carta delle Nazioni Unite, “il diritto di auto-determinare il proprio statuto politico ai fini di garantire meglio il proprio sviluppo economico, sociale e culturale.”
L’unico inconveniente delle operazioni geopolitiche russe è quello di produrre nel dibattito occidentale, mediatico e social, un sacco di banalità ed equivoci semantici, fra cui il pacifismo selettivo è quello più stridente e insopportabile. Il politicamente corretto non è pronto ad accettare altre guerra se non quelle lontane o di “esportazione di democrazia”, dimenticandosi che la guerra è il motore universale della storia umana, laddove la pace è solo quel lasso di tempo che intercorre fra i conflitti militari, necessario per potenziare e modernizzare gli armamenti e preparare le successive strategie d’azione. Nella dialettica storica “pace” e “guerra” sono dei sinonimi, tant’è che nessuno Stato ha mai smesso di armarsi, in quanto l’industria bellica dimostra di essere l’attività più vigorosa, creativa e stimolante per il progresso economico di tutti i paesi. Non fanno eccezione nemmeno l’industria bellica italiana e il ‘pacifico’ esercito nazionale, che negli ultimi due anni ha beneficiato di un aumento di finanziamenti senza precedenti.
Nonostante le grandi sofferenze che reca, la guerra si pone al di là del bene e del male, in quanto anche il casus belli più nobile e giusto richiede sacrificio di vite umane – quelle del nemico come quelle della propria gente, il che definisce le potenze belliche come “hard power”. Dall’altro lato abbiamo le guerre ibride, fra cui da includere anche l’ultima pandemia, dove le forze in azione sono di carattere economico, finanziario, scientifico e mediatico (di propaganda), le quali vengono definite “soft power”. Il politicamente corretto non ammette che le “soft power” possano mietere ‘silenziosamente’ molte più vittime delle guerre, ma che in ultima istanza è la “hard power” a determinare la fisionomia geopolitica del mondo, ossia i confini territoriali e le zone d’influenza politica. L’unificazione territoriale di quasi tutti i paesi, compresa quella d’Italia, cosi come le rispettive frammentazioni (come quella di ex Yugoslavia), passano inevitabilmente attraverso repressioni e conflitti bellici. Il “hard power”, inoltre, domina su tutte le narrazioni mediatiche e rende secondario ogni altro argomento, il che spiega perché il tema sanitario si è sgonfiato in pochi giorni e non fa più leva sull’attenzione dell’opinione pubblica.
Ritornando all’Ukraina, possiamo dire che la sua recente storia è un vero e proprio esperimento sociale. Il perspicace e talentuoso Volodymyr Zelensky, classe 1978, ebrei di madrelingua russa, diventa popolarissimo per il pubblico ucraino come regista e protagonista della serie tv di successo intitolata “Il servitore del popolo”, dove l’attore interpreta il futuro presidente d’Ukraina. Nonostante gli effetti speciali di discutibile gusto, il film fa vedere in modo veritiero i punti più dolenti e scoperti della società ucraina – la corruzione, l’amoralità, il decadimento culturale ed economico, ma elabora un finale utopico, in cui il mirabolante Presidente, dispensatore di giustizia fai da te, riesce a portare il popolo in uno stato di rinascimento e di conquista di un ordine sublime di civiltà: un vero trionfo nazionale. Questa produzione televisiva di forte effetto nazionalista spiega anche il successo elettorale di Zelensky, assurto a presidente a maggio 2019; fatto sta però che una volta catapultato nella vita reale, ossia nella realpolitik, il neo presidente diventa protagonista di un’altra fiction, molto più attraente, che è quella di ubriacarsi dei dollari americani, servendo la volontà di forze maggiori, fino al punto di entrare in un allucinante delirium di onnipotenza che lo porta addirittura a minacciare Putin con l’adesione alla Nato e la fabbricazione della bomba atomica. Una delle ultimissime performance di Zelensky è la sua collaborazione con Hollywood, il che fa capire come l’(ex)attore non faccia alcuna distinzione fra realtà e cinematografia, così come fra realtà e social, e come l’atterraggio forzato nella realtà sarà poco consapevolizzato, forse perfino rimosso da lui e i suoi compagni d’avventura.
A proposito della Russia, l’errore sistematico che si commette spesso nell’approccio al soggetto “Russia” è quello di applicare standard e criteri di giudizio occidentali, a partire dal politicamente corretto con il pacifismo e la solidarietà selettivi per arrivare al criterio di interesse e profitto economico. Nell’azione militare russa in Ukraina non vi è alcun interesse economico, anzi, è un’azione dispendiosa sotto tutti gli aspetti, che implica cospicui investimenti russi a fondo perduto nelle Repubbliche autonome. Inoltre, il governo russo sa di rischiare sanzioni economiche e ha già messo nel bilancio tutto ciò che era prevedibile come reazione da parte degli USA e la finanza occidentale, il che conferma che le motivazioni del suo intervento sono molto più profonde e sicuramente incomprensibili per la mentalità tecnocratica occidentale, e probabilmente hanno a che fare con il sentimento fraterno per i popoli russi e il dovere morale di metterli in salvo. Il senso di colpa per aver rimandato l’intervento così a lungo sarà ripagato con tribunali e processi pubblici per i crimini contro i cittadini russi delle Regioni separatiste, rivendicando la memoria di circa 50 mila vittime, fra uccisi e gravemente feriti durante gli ultimi 8 anni, di cui il feroce attentato di Odessa è quello tragicamente più simbolico. Nei tribunali militari, governanti ucraini e mercenari filo-nazisti saranno interpellati su tutti i dettagli dei loro legami con i mandanti esteri, il che rende i leader occidentali comprensibilmente nervosi. Alla fine, il successo della Russia e le sue vittorie belliche non hanno mai dipeso dall’andamento dell’economia, ma da una forza psico-fisica che può essere espressa solo con concetti metafisici, o definita in termini para-normali.
C’è però un altro mistero inspiegabile intorno all’operazione russa, forse più di uno, e riguarda il retrocedere di Joe Biden. Colui che per consuetudine di casta è stato sempre particolarmente minaccioso e aggressivo verso Putin, nel briefing del 24/02 ribadisce che gli USA non interverranno in Ukraina, ma si attiveranno solo per la difesa degli alleati, e focalizza il suo discorso su numeri bancari, sanzioni finanziarie e l’interruzione del sistema swift, nonché dello Nord Stream 2 (con cui però sanzionerà oltre tutto la Germania). Da notare come tutte le guerre americane, anche quelle più ignobili, hanno sempre ottenuto come effetto collatterale il rafforzamento del dollaro, mentre per la Russia viene pianificata una specie di asfissia finanziaria (per fortuna la sua economia è basata sui commodities). Tuttavia l’Ukraina, la creatura prediletta della geopolitica anti-russa, foraggiata con miliardi di dollari, viene all’improvviso lasciata a se stessa, ma continuerà ad essere aiutata con pioggia di denaro, armamenti e altre promesse. Al briefing Biden ribadisce che gli USA hanno donato al governo ucraino 650 milioni di dollari solo nell’ultimo anno per la sicurezza del suo territorio (e in questi giorni Blinken ne aggiunge altri 360 milioni), poi sorride imbarazzato davanti ai giornalisti come un bambino costretto a dire delle bugie. L’impressione è come se Biden avesse abbandonato la linea inflessibile di Obama e Nuland e abbia sposato la linea di Trump, quella che dà priorità al confronto militare con la Cina per Taiwan e che prevede di mantenere rapporti buoni con la Russia per garantire la sua neutralità.
E’ possibile che fra Putin e Biden ci sia stato un accordo segreto che abbia barattato l’intervento in Ukraina con la neutralità russa rispetto al conflitto USA- Cina. Così come è possibile che l’interventismo di Putin abbia voluto sfruttare sia la vicinanza delle elezioni midterm negli USA che il Congresso del PCC nell’autunno, dove Xi Jinping attenderà la propria rielezione, ma per onorarla dovrà superare qualche sfida importante, come quella presentata dall’annessione di Taiwan. O magari sia avvenuta anche per altri motivi meno immaginabili, come lo sarebbe l’ipotesi della distruzione di segretissimi bio-laboratori e basi americani, nascosti sul territorio ucraino, oppure semplicemente perché Putin abbia perso ogni stima per i leader europei e ogni pazienza e interesse ad assecondarli, lasciandoli al loro destino. Pochi capi di Stato hanno comunque ratificato il riconoscimento delle nuove Repubbliche indipendenti di Donbass, fra cui quelli di Cuba, Nicaragua e Venezuela. Stranamente sono rimasti in silenzio perfino gli alleati e gli amici più fedeli di Putin, ma non è mancato Trump, che ha definito l’azione del presidente russo “geniale”, ovviamente per umiliare Biden. Come si svolgeranno gli eventi da ora in poi appartiene solo al divenire, ma la verità è che ciò che è accaduto è stato inaspettato e scioccante persino per i seguaci di Giulietto Chiesa. L’opinione pubblica occidentale era abituata con la rassicurante idea che gli unici ad avere il diritto di aggredire un paese sovrano fossero gli USA e i suoi alleati. La domanda che dobbiamo porci è se servirà più tempo per disabituarci dalla mascherina pandemica o per accorgerci che l’Occidente si regge su una bolla stratosferica, che è oltre tutto una bolla mediatica.
27 Febbraio 2022
Zory Petzova
(*) citazione di prof. Valentin Vatzev, autorevole esperto di geopolitica bulgaro