Essere testimoni diretti di un evento di trasformazione epocale, come quello del Crollo del blocco comunista, non avrebbe potuto garantire la visione delle cose nel loro insieme, anzi – l’avrebbe precluso, perché solo chi disponeva di un potere internazionale era in grado di conoscere le vere premesse di ciò che stava accadendo e prevederne le conseguenze e gli effetti delineati come obbiettivi. Quelli che ne partecipavano dal basso, in qualità di dimostranti ed attivisti, erano utili ad azionare quelle dinamiche che dovevano conferire spontaneità al processo politico e sociale, dovevano infondere energia fisica ed emotiva per legittimare quella che dopo anni si sarebbe rivelata come l’eterogenesi dei fini, cioè i fini non per come venivano concepiti e attesi da chi partecipava dal basso, ma per come erano pianificati dai grandi giocatori della geo-politica mondiale. Per capire l’evento di cui siamo stati testimoni, bisogna vederlo a distanza del tempo.
Per i dissidenti del regime comunista, rappresentati oltre tutto dall’intellighenzia e appartenenti a tutte le generazioni – da quelle che avevano subito le epurazioni comuniste ancora agli arbori della dittatura a quelle appena maggiorenni cresciute a pane e cultura occidentale, con in tasca il grande sogno americano di libertà e di rivalsa individuale – la notizia della caduta del regime arrivò con l’incredulità di una piacevole sorpresa, e si difuse come una timorosa passaparola sussurrata fra complici: l’intimo auspicio di un desiderio che finalmente si stava per esaudire. Qualcosa aveva accelerato le lunghe attese di libertà e di democrazia. La fine di una dittatura – innaturale e ingiusta, era vicina, perché là fuori del recinto qualcuno aveva a cuore il nostro futuro.
Il crollo del Muro di Berlino, o del Patto di Varsavia, o delle dittature communiste dei paesi dell’Est, avviene in un contesto non più così rigido e grigio come gli anni di piombo. Dalla metà degli anni 80 la stretta del regime è rallentata, la propaganda del Partito comunista – alleggerita dai dogmi e meno tassativa, vi è una sempre più diffusa libertà di pensiero, un ampiamento di idee, c’è la manifesta irriverenza verso il potere e la satira politica come la più dissacrante fra le verità; c’è la Glasnost (trasparenza) e l’aumento di pubblicazioni periodiche di qualità che non temono più la censura. C’è un clima di riformismo grazie alla Perestrojka sovietica – la parola d’ordine che presiede al dibattito pubblico e crea largo consenso, ossia – quella necessaria riforma del modello economico, con cui lo Stato doveva decentralizzare il ponderoso e lento apparato burocratico e concedere maggiore autonomia alle imprese, facendo prevalere nella loro gestione i metodi economici rispetto a quelli amministrativi, nonché regolamentare margini di iniziativa privata in settori come il piccolo commercio, ristorazione, servizi del terziario e la produzione agricola con le nuove cooperative. Con la Perestrojka lo Stato autoritario annunciava la contrazione del proprio interventismo per lasciare aria alla mentalità di impresa, riorganizzando il sistema bancario in modo da attrare nuovi investimenti esteri per la propria economia.
Su piccola scala si potevano già sperimentare i benevoli effetti della concessione da parte dello Stato di spazi pubblici e attività dedite al turismo e all’intrattenimento, settori che dovevano essere resi più attraenti dall’impronta personalizzata dei privati, stimolando una crescente inventiva imprenditoriale. L’iniziativa privata, rimasta sepolta in tutti quei anni, ora doveva essere risvegliata – quella sacrosanta e innata a ogni uomo propensione di produrre plusvalore e di scambiarlo attraverso il denaro, la passione di partecipare alla fervida vita del mercato, di vendere e comprare i beni in libertà, senza l’intromissione dello Stato, giacché nella lunga storia della società, delle sue tradizioni e consuetudini, il mercato antecede l’istituzione dello Stato. La mancanza di un settore privato aveva fatto fiorire durante l’ultimo decennio il mercato nero di beni di vario genere, provenienti oltre tutto dai paesi occidentali: erano gli unici luoghi, alcuni divenuti luoghi di culto, che potevano contrastare il grigiore e la scarsità dei negozi di regime.
Pieni delle nostre mancanze e aspirazioni, suscitate dal confronto con l’Occidente, noi – i giovani universitari di Sofia, eravamo pronti e impazienti a partecipare alla Rivoluzione studentesca per il cambio democratico del regime. Ma saremmo stati altrettanto entusiasti se avessimo saputo che tutti i processi interni fossero eterodiretti? Formalmente, il Movimento era guidato da un comitato direttivo, con i coordinatori delle varie facoltà e il leader che faceva capo a tutta l’organizzazione, come sarebbe giusto che sia, ma in quel momento non potevamo ancora sapere che dietro il leader ci fosse un soggetto estraneo molto ricco e potente, che non apparteneva alla nostra nazione, e ancora meno al mondo studentesco. Quel soggetto non si era rivelato ai nostri occhi, abbiamo saputo di lui qualche anno dopo, quando l’entusiasmo del cambiamento si era placcato in una disillusa e sconcertante realtà. Ogni gioventù sogna la propria Rivoluzione, perché nell’eccesso di spirito idealista crede di poter cambiare il mondo, ma in queste dinamiche spesso si infiltra chi con grande abilità riesce a dirigere l’energia dello stato nascente verso altri scopi, godendosi lo spettacolo dietro le quinte. I veri processi accadono sempre dietro le quinte dei grandi eventi.
Il leader del Movimento studentesco era affascinante e carismatico, magistralmente preparato nella dialettica rivoluzionaria e di apologia della democrazia, era uno studente di Lettere fuori corso, di cui si narrava sia stato in prigione negli ultimi anni per cospirazione contro il regime comunista. La stessa leggenda girava anche su un altro leader – quello del neo partito “Libertà e diritti”, nato in rappresentaniza delle minoranze etniche (da intendersi le minoranze turche), ma tali dettagli biografici non erano verificabili. O forse l’esperienza di una detenzione era necessaria per rendere i leader più meritevoli agli occhi dei loro seguaci, i futuri elettori della neo-democrazia?
Quello che noi dimostranti anti-regime non sapevamo, noi che con grande entusiasmo facevamo riempire strade e piazze nel periodo fra il novembre 1989 e l’estate 1990, è che il crollo del Muro di Berlino non era iniziato a Berlino, ma sei mesi prima e molto più lontano. Con un evento che non aveva le sembianze di una rivoluzione morbida – romantica ed esaltante, come lo era la scenografica scavalcata del Muro da parte dei berlinesi dell’Est, ma con una Rivoluzione vera, ad alto rischio di morte e di ritorsioni, finita annegata nel sangue, con migliaia di vittime e feriti. Quella Rivoluzione è rimasta nella storia come il Massacro della Piazza di Tienanmen, dove l’esercito comunista cinese, armato con fucili d’assalto e carri armati, aveva aperto il fuoco contro i dimostranti anti-regime. Un bagno di sangue, e immagini di coraggio e di tragica bellezza che resteranno indelebili nella memoria collettiva. Ma nessuno di noi in quei giorni si era posto la domanda: perché a Pecchino la Rivoluzione di decine di migliaia di studenti, intellettuali e operai era stata atrocemente soppressa, mentre a Sofia e nelle altre capitali dell’Est i governi comunisti si erano arresi quasi senza resistenza? (Con un’unica eccezione, quella del governo di regime di Chaushesco.)
Il Movimento studentesco cinese della primavera 1989 nasce come una protesta di massa del tutto spontanea, suscitata dalla morte del Segretario generale del Partito comunista Yaobang, una protesta che chiede al Governo centrale di introdurre le riforme volute dal leader mancato in tema di diritti umani e libertà di espressione, di anticorruzione e pluralismo partitico e mediatico. Ma non erano tali i piani dell’establishment governativo, perché la modernizzazione cinese era stata prevista e pianificata da tempo, ma non con le modalità che corrispondano a una democrazia occidentale.
Nel 1983 a Pechino, quasi all’incognito, arriva una delegazione della Banca Mondiale (The World Bank) per incontrarsi con i vertici del Partito comunista. Dopo la morte di Mao Zedong nel 1976, la leadership del partito è incarnata dalla minuta ma carismatica e prodigiosa figura di Deng Xiaoping che consolida intorno a sé la corrente riformista, ossia quella linea di pensiero che valuta l’opportunità di introdurre nel sistema economico elementi di libero mercato, riavvicinandosi agli organismi americani per chiedergli aiuto. L’apertura politica verso gli Stati Uniti è preparata dall’abile mediazione diplomatica di Kissinger e la storica visita di Nixon nel 1972. Passano però circa 10 anni perché le rinnovate relazioni prendessero una forma concreta, non prima della modifica della Costituzione della Repubblica Popolare Cinese nel 1982, che deve accogliere i profondi cambiamenti socio-economici in avvenire. La nuova Costituzione espunge la retorica della Rivoluzione culturale di Mao, ridimensiona la lotta di classe e stabilisce come maggiori priorità lo sviluppo, l’arricchimento individuale e la recezione di contributi e interessi da parte di gruppi a-politici che possono giocare un ruolo centrale nel processo di ammodernamento del paese.
Nel 1983 la delegazione della Banca Mondiale esegue un’accurata sopravvisione dello stato dell’economia cinese e l’anno successivo, dopo la simbolica visita negli Stati Uniti del primo ministro cinese Zhao Ziyang, il piano della Riforma economica viene definitivamente concordato.
L’accordo fra la Banca Mondiale e il Partito comunista cinese (PCC) prevede che l’economia cinese introduca, accanto all’industria pesante, la diversificazione dell’industria leggera con una crescita guidata delle esportazioni, per investire successivamente i profitti generati dall’export in una produzione tecnologicamente più avanzata. L’economia cinese deve aprirsi agli investimenti stranieri, favorendo le attività produttive che portano sul suo territorio un importante know-how tecnologico e manageriale, che sarà trasferito anche nella gestione pianificata della macroeconomia, affidata a dirigenti tecnicamente competenti, e non più a funzionari di partito. L’accordo non prevede alcuna privatizzazione degli attivi di Stato, ma solo maggiore indipendenza delle industrie di Stato dal Governo centrale. La Banca Mondiale si impegna di dare crediti e modernizzare il sistema bancario cinese. In cambio lo Stato cinese deve riconoscere la supremazia militare degli Stati Uniti nel Pacifico, facendo in questo modo un avvertimento all’Unione Sovietica. Nessuna condizione o veto vengono poste ai governanti cinesi in materia di diritti umani, pluralismo e procedure democratiche. Il regime autoritario del Partito Comunista e i suoi metodi disciplinari non vengono messi in discussione in alcun modo. O forse poteva essere persino incentivato da parte dei partner occidentali? Altrimenti, rimane inspiegabile perché la manifestazione studentesca della piazza di Tienanmen venisse così duramente repressa proprio da parte di chi era stato il più grande riformista del pensiero comunista, egli stesso esiliato agli inizi della sua carriera da Mao – il piccolo grande Deng Xiaoping, che durante quella primavera era presidente della Commissione militare: Deng, che poi giustificò la cruenta repressione delle proteste come misura necessaria per mantenere la stabilità sociale e per continuare verso un efficace progresso economico. Aveva responsabilità verso un Piano che evidentemente non era solo il suo. Ma almeno si meritò i lunghi anni in cui, a ogni occorrenza, gli oppositori/dissidenti bruciavano e rompevano bottiglie di vetro come segno di disprezzo nei suoi confronti.
Ai paesi dell’Est, e in particolar modo alla Bulgaria, viene applicato un piano di transizione del tutto opposto a quello della modernizzazione cinese. Esso viene definito come “democratizzazione della società”, ma in realtà è un piano di colonizzazione del paese, con l’abolizione di ogni sovranità e autonomia legislativa. Dopo le prime manifestazioni anti regime, viene costituita una Tavola rotonda come organo di trattativa fra il Partito comunista e le nuoive forze politiche, con cui viene introdotta la procedura elettorale per l’elezione della grande Assemblea costitutiva per la modifica della Costituzione, con il primo presidente post comunista da essa eletto, ma paradossalmente il nuovo Parlamento, nonostante una composizione pluralista, deve eseguire un programma legislativo compatto e univoco, del tutto contrario agli interessi del paese, in cui la parola d’ordine è “denazionalizzazione”.
A livello di comunicazione mediatica viene propagato un nuovo linguaggio che parla di libero mercato, di marketing e business, di efficienza e competizione, di mercato azionario e fluttuazione dei cambi, mentre nel frattempo le nuove istituzioni democratiche smantellano il sistema industriale del paese pezzo per pezzo, partendo dal complesso militare-industriale. Da 3500 imprese statali costruite durante il regime, di cui diverse di eccellente livello tecnologico, ne vengono conservate solo un decimo. In pochi anni la deindustrializzazione crea disoccupazione senza precedenti, ma paradossalmente è la categoria degli specialisti quella più colpita. Questo determina la così detta “fuga dei cervelli” verso i paesi occidentali, il progressivo impoverimento del tessuto sociale e l’inizio di un’inarrestabile calo demografico. Come se non bastasse, dall’underground dei servizi segreti viene data via libera alla criminalità mafiosa – un vero e proprio “far west” necessario all’iniziale accumulo dei capitali, un periodo buio di illegalità e deregolamentazione che favorisce ogni sorta di affarismo, corruzione e abuso di potere. L’impatto di questo vuoto giuridico è non solo economico e politico, ma storico e antropologico.
Nei primi anni 90, sullo sfondo della desolazione sociale, contrassegnata dalla “shock therapy” del deficit di beni di prima necessità e dalla iper-inflazione, per i giovani si accende la speranza delle nuove offerte di istruzione universitaria – la via maestra del riscatto sociale. Viene istituita la prima università occidentale- La Libera Università Americana, che seleziona gli studenti più bravi per dargli una formazione adeguata e promettente in vista del nuovo mercato del lavoro. Dai forum mediatici trapela il nome del filantropo George Soros, fondatore dell’Università Americana, e della sua Open society che finanzia borse di studio per le università occidentali più rinomate. Con tale borsa di studio viene premiato anche il leader del Movimento studentesco che, dopo aver conseguito un master universitario negli USA, ritorna in patria per arricchire il pluralismo parlamentare con un nuovo partito fatto su misura. Nello stesso modo vengono formati all’estero, e poi rimpatriati, tanti giovani bravi ed efficienti che, senza nascondere il loro legame con le Organizzazioni non governative di Soros, si impegnano a costruire la nuova democrazia bulgara secondo il modello americano, purtroppo importando soltanto i suoi lati peggiori: quelli del lobbismo di interessi finanziari (molto attivi nelle privatizzazioni degli attivi di Stato) e dell’ipocrisia del discorso pubblico, preludio del ‘politicamente corretto’.
Solo dopo anni diventa comprensibile che la famigerata simpatia di Soros per la Bulgaria era dovuta al suo sconfinato odio per la Russia. La Bulgaria doveva ricevere un’attenzione ‘speciale’ da parte dell’élite occidentale a causa del suo legame storico con la Russia e del suo profondo e viscerale sentimento di russofilia, che avrebbero reso più difficile, anche se non impossibile, la sua adesione a una alleanza anti russa (quella della Nato), il che sarebbe stato un vero problema, vista la sua strategica posizione per il controllo dei Balcani. Anni dopo, lo stesso trattamento ‘speciale’, ma molto più radicale e devastante, viene riservato a un altro paese di forte tradizione russofila – la Serbia, con la creazione degli stati satelliti di Bosnia/Erzegovina e Kosovo come antipodi della cristianità ortodossa.
Dopo la caduta del Muro nel memorabile novembre del 1989, i russi ritirano il loro esercito dalla Germania dell’Est in soli tre mesi. I paesi dell’Europa centrale, quelli del gruppo di Visegrad, ricevono un trattamento privilegiato da parte della Banca Mondiale e i governi occidentali. I territori di questi paesi si rivelano necessari per accogliere le industrie inquinanti della Germania, e anche se devono chiudere i settori industriali concorrenziali, per essi è previsto uno standard di vita più alto rispetto agli altri paesi del Patto di Varsavia, perché essi vengono incaricati di un ruolo geopolitico importante – quello di essere un avamposto dell’espansione della Nato verso la Russia. Questo ruolo spetta oltre tutto alla Polonia, data la sua posizione di paese di frontiera e la storica rivalità con la Russia, a cui viene assegnato il compito di enfatizzare propagandisticamente la minaccia russa: un compito per cui la Polonia viene incentivata e gratificata, ricevendo dal Fondo Monetario Internazionale (IMF) finanziamenti di 300 miliardi di dollari a fondo perduto. Ai paesi dell’Est viene assegnato lo sviluppo dell’industria leggera, come il tessile, l’arredamento, il settore agrario, ma viene bandito ogni sviluppo del settore delle alte tecnologie, per non creare concorrenza al mercato americano, e nemmeno a quello cinese. Essi devono rimanere funzionali a un disegno economico generale, in cui l’iniziativa e il protagonismo economico e politico non gli compete.
L’ultima battaglia del paradigma comunista si gioca in casa, nell’Unione Sovietica, come è logico che sia, e più propriamente sul campo del Polit-buro del Partito Comunista, dove avviene lo scontro ad oltranza fra conservatori e riformisti. A differenza del Partito comunista cinese, all’establishment russo non è concesso alcun compromesso fra le due correnti, nessun passaggio graduale verso il modello di “uno stato due sistemi” adottato dalla Cina. La Banca Mondiale riserva per il Governo russo un dilemma esclusivo: esso deve fare una scelta netta – o il grande tuffo nella finanza e nei commerci internazionali, con un rublo convertibile ed economia esposta a una privatizzazione selvaggia, o il totale isolamento internazionale, senza alcuna linea di credito. I riformisti russi, guidati da Michail Gorbaciov, credono che solo aprendosi totalmente verso l’esterno, l’URSS potrà realizzare le necessarie riforme economiche, ma in realtà cercano solo di trasformare il proprio potere politico in potere economico. (Ed è quello che riusceranno a fare, con ‘il diritto di prelazione’ su una privatizazzione selvaggia e la nascita delle nuove oligarchie.) Mentre i conservatori temono che tale apertura farà arricchire i maggiori speculatori e affaristi internazionali, e impoverire la popolazione russa. Ma il ricatto dell’economia russa da parte dei mercati azionari era già iniziato nel 1986, quando Ronald Reagan, con la complicità dell’Arabia Saudita, aveva portato il prezzo del petrolio ai minimi storici, sottraendo in questo modo al Governo centrale russo le risorse necessarie per le riforme della Perestrojka. Un accavallarsi di cause esterne ed interne porta alla crisi dell’Unione sovietica e alla sua definitiva dissoluzione nel marzo 1991. Da questo momento nella storia mondiale si apre un nuovo capitolo: quello che Francis Fukuyama chiamerà “la fine della storia”.
Il crollo del regime comunista, per quanto necessario a ristabilire diritti e libertà fondamentali, non è stato un evento spontaneo, e nemmeno un atto di liberazione da parte dell’Occidente. Esso fa parte dell’agenda della finanza internazionale di liberalizzazione e dominio dell’economia su scala planetaria, un processo espansivo a cui le economie pianificate di stato si ponevano come ostacolo. Un vigoroso processo di globalizzazione, però, avrebbe avuto bisogno della sinergia fra due forze complemetari: i capitali corporativi occidentali, da una parte, e le solide strutture di un regime totalitario, dall’altra, un regime complice che fungesse sia da motore produttivo che da modello di gestione repressiva delle risorse umane, con la licenza di sospendere, all’occorrenza, libertà e diritti nel nome di una volontà superiore. Questo spinge il nostro’filantropo’ George Soros, impareggiabile fautore e porta-voce dell’agenda mondialista, a dichiarare nel 2013 che “la Cina deve essere portata nella creazione del Nuovo Ordine Mondiale, che un declino controllato del dollaro è necessario, e che la Cina emergerà come un “motore” che andrà a sostituire i consumatori americani”. Nel nuovo ordine globale, la Cina sarà la nuova America.
Oggi, a distanza di tempo, sappiamo che il Crollo del blocco comunista non è servito da insegnamento all’Unione Europea, in quanto l’Unione Europea non nasce sotto il segno della democrazia pluralista, la solidarietà fra i popoli e i diritti sociali: viceversa – viene fondata su un modello di governance centralizzata, tecnocratica ed elitaria, non democraticamente eletta, che ricorda formalmente la struttura dell’Unione sovietica, solo che fondata su princìpi economici opposti – quelli della competizione e la liberalizzazione dell’economia, che si traducono in austerità della spesa pubblica e riduzione delle politiche sociali. L’unificazione d’Europa dopo il 1989 è stata un imperativo della globalizzazione, un salvataggio delle economie occidentali, in funzione delle quali i paesi dell’Est si erano costituiti mercato libero e aperto a ogni tipo di invasione di capitali e interessi esteri. Oggi, con l’evidente deriva autoritaria e restrizioni alle libertà, introdotte con la pandemia, sono proprio i paesi dell’ex Patto di Varsavia quelli che si dimostrano maggiormente scetici e impermeabili alle politiche europee, diventando sempre più consapevoli che il liberarsi dall’egemonia sovietica e dai regimi comunisti, per ritrovarsi sotto una nuova egemonia tecnocratica e la sua volontà di controllo, aveva portato a una paradossale eterogenesi dei fini.
27 Marzo 2021
Zory Petzova
(immagine in evvidenza: il celebre graffito sul lato Est del Muro di Berlino, realizzato dall’artista russo Dimitrji Vrubel in occasione del ventennale della Cadurta del Muro, che ritrae il “bacio fraterno socialista” tra Leonid Breznev ed Erich Honecker. I due, rispettivamente segretario generale dell’URSS fino al 1982 e capo di stato della Repubblica Democratica Tedesca fino alla caduta del Muro, furono immortalati in una foto nel 1979 intenti nell’atto di baciarsi, e lo scatto divenne un simbolo del legame, all’epoca inscindibile, tra l’Unione Sovietica e la Germania dell’Est.)