Dopo un anno dall’inizio del conflitto in Ukraina, ciò che dovrebbe subentrare come disposizione mentale è il totale disincanto, la disillusione e l’abbandono di ogni schema duale, come quello dei buoni e i cattivi. A distanza del tempo, i frammenti e i dettagli si compongono coerentemente e ciò che ne deriva è sempre diverso dalle impressioni iniziali: si crea unità d’immagine con una specie di filtro, un filtro d’ingrandimento degli elementi sfuggenti o opachi. Come premessa di sintesi, possiamo dire che per la prima volta si assiste a una guerra non più fra nazioni, o coalizioni di nazioni, come è la definizione classica di guerra, bensì a una simulazione di scontro, gestito da oligarchie transnazionali che usano gli eserciti – nazionali e privati – come carne da macello, perseguendo obbiettivi divergenti ed ambigui rispetto alle narrazioni officiali e le apparenze di superficie.
La guerra ha varie dimensioni e livelli di analisi – militare, geopolitico, politico, economico, ideologico – ma la difficoltà dell’approccio verso il conflitto in Ukraina deriva non tanto dalla molteplicità dei piani quanto da un’errata impostazione di partenza: lo schema duale aggressore-aggredito costringe di considerare l’Ukraina un’entità statale unitaria, ma in realtà tale unità non è mai esistita. Ciò che veniva chiamato Ukraina era un coacervo di feudi oligarchici che solo formalmente si rifacevano a una struttura centrale, retaggio amministrativo-burocratico dei tempi dell’Urss. Pochi sanno che, dopo il Majdan, le prime spinte separatiste non erano quelle di Crimea e Donbas, ma della regione di Lviv, che aveva organizzato per prima il referendum di annessione alla Polonia (essendo storicamente polacca), annessione che in modo formale e concreto è stata portata avanti dopo l’inizio dell’attuale conflitto, ovviamente senza incontrare alcuna resistenza da parte del così detto Stato ucraino.
Focalizzandoci sulla dimensione militare del conflitto, che è quella più evidente ed immediata, possiamo trovare una serie di incoerenze che vanificano in gran parte le nostre tesi iniziali. Intanto, il primo trauma da incoerenza è stato senz’altro quello di vedere crollare il mito della supremazia tecnologico-militare della Russia. Dalla seconda potenza militare al mondo, che ogni anno celebra con grandiose parate il 9 di Maggio, non era da aspettarsi una guerra convenzionale, affaticata a smaltire tecnica antiquata ed arrugginita nel fango degli insidiosi campi ucraini, e ancora meno la mancanza d’equipaggiamento moderno per i militari russi, inadeguatamente giovani e disorientati, laddove perfino un esercito di paese del terzo mondo si sarebbe presentato con maggiore dignità. Sullo sfondo della poca prestanza dell’esercito russo sorge ancora più impellente la domanda: perché le Repubbliche separatiste di Donbas non sono state annesse ancora nel 2014, a pari merito con la Crimea, quando un eventuale intervento militare russo sarebbe stato legittimo e molto meno disastroso per le parti in gioco? Intanto, sarebbe stato sufficiente un esercito russo molto minore, visto che di fronte avrebbe trovato un esercito ucraino quasi inesistente e una Nato impreparata. Sorge il dubbio se la Russia di Putin era, a questo punto, uno Stato sovrano, come faceva credere la propaganda occidentale, o se Putin, più che dei legittimi interessi dei separatisti, pianamente fondati sul Diritto Internazionale e i precedenti di Yugoslavia, non fosse interessato alla preparazione di uno scontro posticipato, di dimensioni molto più grandi e disastrose.
L’intervento russo di un anno fa si sarebbe potuto limitare ai territori all’est dell’asse Charkiv-Dnipro-Odessa, sfruttando strategicamente i fiumi a proprio favore, tagliando ponti e comunicazioni con l’ovest, quindi fornimenti e rafforzamenti militari per le truppe ucraine; con l’impiego della modernissima aeronautica avrebbe ottenuto un’occupazione/liberazione più veloce e naturalmente circoscritta ai territori russofoni. Infatti, dal punto di vista militare è stata poco chiara la manovra dell’accerchiamento di Kiev. Secondo gli esperti, serviva come mossa tattica per rallentare la pressione del massiccio esercito ucraino, stanziato sui confini di Donbas, ma proprio per questo sarebbe stata più strategica una veloce manovra d’accerchiamento dell’esercito ucraino dal nord, sfruttando il confine bielorusso, senza perdere tempo con Kiev e dintorni. Sarebbe assolutamente insensato occupare una città la cui popolazione nella sua maggioranza è anti-russa e pro-europea, e non riuscire invece a proteggere una città russofona come Kherson, che per prima si era consegnata ai russi; così come sarebbe stato insensato sperare in un colpo di Stato e la miracolosa caduta del regime di Kiev, quando si sapeva che dopo il Majdan l’intelligence ucraina era stata consegnata nelle mani di Praviy Sector, ultra nazionalisti e anti-russi, mentre la difesa di Zelensky affidata a un’intelligence britannica. A questo punto non può che crollare anche il mito dell’efficienza della FSB, erede maldestra della KGB.
In realtà, l’accerchiamento di Kiev faceva parte di un accordo trans-oligarchico, uno scenario utile a dare l’impressione di una minaccia russa su larga scala, in modo da giustificare e legittimare la forte ondata migratoria verso l’Europa e per consacrare l’immagine di Zelensky come eroe della resistenza. Questo non è in contraddizione con il fatto che la Russia ha dovuto assorbire un flusso migratorio perfino maggiore, perché ciò che l’Operazione speciale ha creato come effetto strutturale è proprio lo svuotamento demografico del territorio ucraino, in particolar modo quello all’est del Dnipro, territorio ricco di risorse e di industrie, ma i villaggi e le città più svuotati sono proprio quelli delle regioni dell’est, e le popolazioni più massacrate sul campo di battaglia e in veste di vittime civili sono, appunto, quelle russofone. Alla fine, più che la denazificazione dell’Ucraina, ci è stato lo spopolamento e la distruzione dei territori più russofoni del paese, quindi sarebbe più coerente parlare di una sostanziale de-russificazione dell’Ukraina.
Quando, nei primi mesi del conflitto, analisti ed esperti seri si chiedevano del perché dell’intervento russo, tanti di loro (uno per tutti A. Orsini) provarono a placare la propria perplessità con argomenti rassicuranti e in buona fede accademica, come quello della necessità vitale della sicurezza nazionale russa, della dismisura dell’espansione della Nato all’est, o la liberazione dei territori vessati dal regime di Kiev – tutti argomenti oggettivamente validi ma, considerando le modalità dell’intervento russo, impotenti difronte al disastro dei risultati. Pochi sanno che in realtà il ministro russo della difesa Shoygu è stato contrario a questo intervento, mentre per lungo tempo si è creduto che ad essere contrario era Putin, costretto controvoglia ad assecondare le pressioni dell’apparato militar-industriale che aspirava alla rivincita geopolitica contro la Nato. Ma data la scarsità della preparazione tecnica e organizzativa, diventa poco credibile che tale intervento sia stato fatto per la sicurezza nazionale, e molto più probabile invece che sia stato fatto per delega delle oligarchie transnazionali, che hanno interessi divergenti e meno ovvi rispetto a quelli nazionali. Giusto per dare un esempio di interessi divergenti, bisogna ricordare che, senza il conflitto in Ukraina, non si sarebbero realizzate le premesse geopolitiche per il sabotaggio del Nord Stream2 da parte degli americani, con tutte le conseguenze prevedibili per la crisi tedesca, il che rende l’operazione speciale di Putin strumentale all’indebolimento economico della Germania e alla fuga di investimenti tedeschi in territori energeticamente più convenienti. Questo rende il conflitto in Ukraina un fattore di recessione per l’economia tedesca, e da lì di quella complessiva europea, e contemporaneamente la causa di maggiore consolidazione della Nato, e da lì del trionfo per il lobbying industrial-militare e i rispettivi interessi corporativi.
È vero che nessuna guerra inizia senza gli accordi preventivi fra le grandi potenze, ma quali potevano essere in questo caso gli accordi preventivi? A cosa si doveva arrivare con questo conflitto? Si presume che l’obbiettivo sia la spartizione dell’Ukraina, che però deve essere legittimata da una guerra logorante, devastante e fratricida, ma allo stesso tempo di bassa intensità tecnologica e quasi frenata nelle sue potenzialità. Durante i mesi estivi, a un certo punto si assisteva allo scenario in cui non solo la Russia conduceva un’operazione speciale vergognosa, contro ogni aspettativa ma, paradossalmente, l’Ukraina, proprio quando mostrava un entusiasmo e una prontezza di attacco sorprendenti, veniva frenata: agli ucraini, qualcuno aveva esplicitamente vietato di attaccare il territorio russo. Gli obbiettivi colpiti sul territorio russo, fra cui l’incrociatore Moskva, il ponte di Kerch, l’aeroporto di Engels, il porto di Sebastopol, sono stati tentati per mano dei partner britannici, e stranamente tali azioni di sabotaggio non hanno generato danni rilevanti, ma ciò che colpisce è che erano poco credibili nelle loro modalità, quasi a voler simulare la debolezza della difesa russa e a provocare minacce di escalation nucleare da parte dei parlatori del Cremlino. Allo stesso modo scenografici ed efficaci per l’opinione pubblica, ma non per il reale indebolimento di Kiev, sono stati i famigerati attacchi missilistici russi al sistema energetico ucraino. In realtà, non ci è stato alcun colpo che abbia danneggiato fatalmente qualche elettro-centrale, turbina o generatore di alta intensità, bensì solamente qualche danno a qualche trasformatore, riparabile in poco tempo. Ci è stato tanto rumore anche su un ipotetico attacco missilistico alla Raffineria di Kremenchuk, la più grande in Ukraina, proprietà di Igor Kolomoisky, di cui invece si è saputo di recente che continua a lavorare a ritmi pieni.
Oggi, interrogato sugli obbiettivi per cui vuole continuare a combattere, Zelensky dà la solita improponibile risposta, parlando di ripristino dell’integrità territoriale d’Ukraina del 1991, Crimea compresa. Mentre all’inizio del conflitto la popolazione ucraina si era mostrata unita intorno a questo simulacro di presidente-eroe, oggi è sempre più evidente che Zelensky gioca da solo, a maggior ragione se i suoi ministri si dimettono di continuo, sempre se non uccisi prima. Zelensky non ha altri obbiettivi al di fuori della distruzione totale e definitiva dell’Ukraina, che già da mesi vive solo grazie alla respirazione assistita, per consegnarla poi ai futuri ricostruttori, che non saranno ucraini. Si potrebbe dire che, in un certo senso, Putin è stato il pigmalione della figura mediaticamente gloriosa di Zelensky, anche se il vero sponsor dell’attore è il soprannominato oligarca russo-ebreo Kolomoyski. In realtà tutti coloro sono consapevolmente strumentali al piano del nuovo Israele Celeste, che sorgerà proprio sui territori dell’asse Kharkiv-Dnepro-Odessa, sui ceneri di un sistema obsoleto, corrotto e improduttivo, che verrà rottamato definitivamente dalla guerra.
A questo punto, bisogna chiedersi per l’ennesima volta: chi è realmente Putin? Probabilmente un agente degli anglo-ebrei, molto alto nella gerarchia, benché abile e risoluto, e allo stesso tempo rappresentante consacrato dell’oligarchia russo-ebraica, laddove i due gruppi giocano amichevolmente a sfidarsi in guerra, simulando ostilità e colpi bassi, sulle spese dei popoli europei. Nella famiglia russo-ebraica Zelensky è di grado inferiore, ma onorato con il ruolo di diventare l’idolo dell’Occidente, il che lo riempie di vanità ed inventiva. Gli oligarchi transnazionali conoscono la psiche umana e sanno che i slavi sono perfetti da essere portati al massacro perché, essendo inclini al consumo di alcol, sviluppano una particolare attitudine sia al delirio di onnipotenza che al sacrificio – i due lati della stessa follia.
Che si tratta di una simulazione di conflitto, ma con sacrifici reali, si apprende non solo dalle enormi contraddizioni e incoerenze strategiche ed operative sul campo di battaglia, ma anche dalla qualità della narrazione mediatica. Quasi tutti i protagonisti di primo piano sono pateticamente forzati nella loro recita, stilizzati e polarizzati nei ruoli, resi innaturalmente stupidi. Dalla narrazione mediatica trasuda la stessa forzatura e induzione al fanatismo come durante la campagna vaccinale: un vaccino farlocco è stato trasformato nel simbolo della scienza, mentre ora i media sono riusciti ad innalzare ad eroe dell’Occidente un comico, che non ha nessuna esperienza vitale e professionale al di fuori dei gag di intrattenimento, e che su un campo di battaglia scapperebbe come un coniglio. Massime categorie rappresentate da simboli tarocchi e grotteschi, il che non è solo fonte di dissonanza cognitiva. Da parte dei padroni della comunicazione è segno di disistima verso l’opinione pubblica, ma più propriamente è un’attestazione di profondo disprezzo verso l’establishment del potere formale. Mai prima d’ora un presidente americano è stato così ridicolizzato ed estremizzato nei suoi gaffes, ma sono stati pesantemente umiliati tutti i politici e giornalisti di prima linea, costretti, con poche eccezioni, a dire cose assurde e a dichiarare posizioni contrarie a tutta la loro carriera e reputazione. Bisogna riconoscere, comunque, che i registi del copione sono dissacranti e che hanno un macabro gusto per la comicità.
26 Febbraio 2023
Zory Petzova