Zugzwang è un termine del repertorio scacchista che si riferisce a una situazione di estrema difficoltà, in cui il giocatore, qualsiasi mossa faccia, è costretto a subire o lo scaccomatto o la perdita della difesa del re; di solito si verifica nel finale, quando rimangono poche figure e non ci sono più mosse vantaggiose da fare, per cui chi deve muovere, perde la partita. Questa è più o meno la situazione in cui è stato messo Trump sulla scacchiera dei disordini sociali, con una sfida che dimostra come i suoi avversari siano pronti a usare ogni tattica per indebolirlo nella corsa per la vittoria presidenziale a novembre.
Lo spiraglio del caos sociale, enfatizzato dai media come la nuova Rivoluzione americana, ha costretto Trump a fare qualcosa che non era mai stato fatto nella storia costituzionale americana: ricorrere alla prerogativa presidenziale di mobilitazione della Guardia nazionale per riportare la situazione all’ordine e al rispetto della legge. Con il rischio di poter essere accusato dell’uso di forza repressiva nei confronti dei manifestanti, e quindi di perdere il consenso dell’oppinione pubblica, ma allo stesso tempo impossibilitato di fare altrimenti, pena la perdita di fiducia di quell’elettorato che esige stabilità e ordine, e che conta circa 40% della popolazione.
La minoranza afroamericana, costituitasi in queste manifestazioni come soggetto di punta attraverso l’organizzazione Black Lives Matter – portatrice di istanze anti-razziali, è stata sempre coltivata dai democratici come un esercito di riserva elettorale, quell’ago della bilancia che potrebbe determinare gli esiti di ogni elezione presidenziale. Considerando che essere esperti in “management of black riots” è fra le competenze obbligatorie dei leader dem, non dovrebbe sorprendere la prontezza con cui sono state usate (create) a fini elettorali le ultime proteste, sopportate anche da ex leader repubblicani che fanno parte della stessa scuola di pensiero, che oramai possiamo chiamare ufficialmente “Deep state”.
Nelle dinamiche della così chiamata Rivoluzione americana non c’è nulla di spontaneo, a partire dall’evento scatenante dell’omicidio di G. Floyd, perché anche se negli Stati d’America (così come in tanti altri paesi del mondo) ci sarebbero tutte le premesse di ordine socio-economico per un movimento di protesta civile, un omicidio come quelli che accadano quotidianamente nella prassi poliziesca (dove la maggior parte delle vittime sono comunque di colore bianco nonostante il tasso di criminalità sia molto più alto fre le minoranze etniche), non può essere attributo all’amministrazione Trump in modo da rappresentarlo come la vera causa delle insurrezioni. Perché tale nesso sarebbe non solo privo di ogni logica e oggettività, ma indicativo di un accecamento ideologico ‘sinistro’, tipico di chi vuole interpretare gli eventi credendo di stare dalla parte del giusto, quando in realtà sta dalla parte del vero colpevole di tutte le macro problematiche che oggi affliggono l’America, e anche il resto del mondo, nate sotto il dissennato esercizio di un potere imperialista a guida democratica.
La società americana registra negli ultimi decenni un crescente acuirsi dei problemi sociali, con il sempre più difficile accesso ai diritti dello studio, della sanità e del lavoro, ma tali problemi di crescente disparità sociale si verificano, anche se più blandamente, in tutti i paesi occidentali che sono parte attiva della globalizzazione, perché in seguito alla livellante omologazione degli standard retributivi, tutti i ceti lavorativi hanno subito un inevitabile ribasso del proprio tenore di vita, con progressiva erosione di stipendi e politiche sociali. Ma il programma politico di Trump, con cui si è meritato la vittoria nel 2016, si pone proprio in controtendenza alla globalizzazione, e quindi alla causa dell’impoverimento della popolazione, intento a riportare gradualmente produzione e lavoro sul territorio nazionale; un impegno che, alla fine del suo primo mandato, ha portato la disoccupazione ai minimi storici, con una stabile crescita economica di 3,5 % all’anno, risultati che sono a beneficio oltre tutto dei ceti lavorativi, e quindi anche delle minoranze etniche.
Tali risultati sono stati raggiunti nonostante Trump sia stato l’unico presidente nella storia americana a dover subire un costante e strisciante colpo di stato durante tutto il suo primo mandato. Formalmente è il presidente degli Stati Uniti, ma sostanzialmente non ha mai potuto esercitare in modo adeguato il proprio potere, a causa di una continua cascata di trappole disseminate sul suo percorso: a partire dall’accusa di Russiagate firmata “Obama”, pensata per eliminare la figura chiave del suo entourage – M. Flynn, per proseguire con l’impeachment sollevato proprio da Biden (che in Ucraina ha enormi conflitti d’interesse), e poi con la pandemia, non solo gestita da Oms e rispettive task force in maniera volutamente mistificatoria e opaca, ma vigliaccamente usata dalla propaganda dem e mainstream occidentale in modo da incolpare Trump per gli inevitabili effetti sanitari ed economici che ne dovrebbero derivare, fino ad arrivare all’anomala Rivoluzione americana con effetti ulteriormente peggiorativi della situazione economica e sociale.
Questa ultima si presenta nel momento in cui si era iniziato a parlare di una ripresa economica post pandemia, ma anche nel momento in cui stava venendo fuori tutta la montatura pseudo scientifica dei protocolli di cura anti-covid (il recente scandalo di “Lancet” a proposito dell’idrossiclorochina è solo uno degli esempi).
In realtà Trump ha gestito la sfida della pandemia in modo impeccabile, preparando attraverso il ‘helicopter money’ la ripresa dell’economia al dettaglio (una misura per la quale si è complimentato perfino Varoufakis), ha bilanciato in modo saggio e consapevole il conflitto fra il diritto alla salute e il diritto al lavoro e libertà d’impresa, un conflitto che non può essere risolto con modalità autoritarie da regime, essendo entrambi i diritti ugualmente importanti per la dignità e la sopravvivenza delle persone. Ha mostrato sempre la sua fiducia e appoggio alle cure anti-virali tradizionali, con cui si è conquistato l’avversione della dominante vulgata scientifica, priva oramai di ogni credibilità, funzionale esclusivamente a interessi corporativi. E non per ultimo, è riuscito a smontare il malaffare fra l’amministrazione Oms e il Governo cinese, con retroscene e responsabilità che devono ancora venire alla luce.
Altrettanto difficile per Trump è stata la gestione della politica estera, con l’eredità del tandem Bush-Obama che, dopo il conflitto in Siria, lascia un Medio oriente ancora più frammentato, con paesi, una volta stabili e di prosperità economica, riportati allo stato selvaggio delle tribù e delle frazioni con la bandiera, grazie alla militarizzazione del fanatismo islamico, presentato anch’esso a sua volta come rivoluzionario, per essere usato poi in chiave anti-sovranista. Quello che Trump trova sulla scena geopolitica nel momento della sua elezione in realtà sono gli effetti del “Blowback” (contraccolpo), previsti e descritti ancora anni fa nell’omonimo libro dell’esperto di geopolitica, ex capo della Cia – Chalmers Johnson, in una sequenza di indagini e analisi che dimostra come quello che era l’ideale politico dell’unica nazione al mondo in grado di intervenire per contrastare violazioni dei diritti umani secondo il Diritto internazionale, è stato tradito da criminali interessi economici e finanziari, assecondati da un apparato politico ignorante e aggressivo, con il “capolavoro” dell’impresa geopolitica – quella della creazione del terrorismo. (Per questo fare chiarezza sull’ 11 di Settembre dovrebbe essere una questione inderogabile per l’agenda di Trump.)
In politica estera, un’altra questione che pone Trump in situazione difficile è l’ambizione di indipendenza di Taiwan. Mentre la questione di Hong Kong può considerarsi perduta per la causa della democrazia, trattandosi di irrevocabili trattati internazionali stipulati in vecchia data fra la Cina e la Gran Bretagna, la richiesta di Taiwan di una sovranità indipendente ha tutte le premesse storiche e politiche (il partito di maggioranza al governo è di profilo democratico-liberale) per essere perseguita e sostenuta da altre democrazie. Ma questa volta sarà la Cina a essere messa in posizione di zugzwang, perché se non dovesse rispondere alla liberazione di Taiwan con un attacco militare, l’attuale presidente cinese perderà il suo onore e dovrà ritirarsi dal potere; se invece dovesse rispondere militarmente, questo porterà al coinvolgimento dell’esercito marino americano in uno scontro militare con la Cina, una situazione che ha il suo precedente storico negli eventi del ’58, ma nelle attuali circostanze può generare delle ripercussioni geopolitiche su vasta scala.
In ogni caso, la prossima elezione di Trump sarà l’inizio di un difficile e gravoso processo di ricostruzione di tutto il sistema-mondo, e non di un singolo stato, che si trova in una crisi cogente che non può permettersi la lunga decadenza dei vecchi imperi, per cui, data l’accelerazione della storia e dei processi globali (secondo Habermas), i cambiamenti dureranno pochi anni e saranno veicolati sotto la forma di processi lampo. Ci sarà il cambio delle élites politiche nazionali, che attraverserà tutti i paesi europei che hanno subìto, in modo diretto o indiretto, le interferenze del Deep state, ci sarà un cambiamento del modello economico mondiale e delle forze economiche mondiali. Per questo motivo Trump sarà contrastato nei prossimi mesi da continue tattiche da scaccomatto, perché la questione per i suoi avversari, che rappresentano oramai il vecchio potere, è una questione di vita o di morte, ma essendo lui un protagonista imprevedibile, come può esserlo solo un grande giocatore, può permettersi di rovesciate il tavolo del gioco e iniziare una partita pulita, con un nuovo sistema di regole, quello della vera Rivoluzione americana.
Zory Petzova
13 Giugno 2020