Il 4 febbraio c’è un articolo sull’HuffPost (area GEDI-Elkann) di Rosa Fioravante, Teaching assistant di Political Sociology alla Luiss, intitolato
Federico Caffè, il maestro di Draghi
Faccio una lunga citazione. E’ la parte finale dell’articolo, ma è di fatto quasi tutto l’articolo.
Come è noto, Keynes sosteneva che, nel tempo, è il potere delle idee più che quello degli interessi a essere pericoloso per il bene o per il male: “I matti al potere, i quali sentono voci nell’aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro”. Proprio Federico Caffè sosteneva che, anche quando gli interessi sono più forti, bisogna tuttavia che gli economisti badino alle idee.
Poiché viviamo in quella che Crouch ha definito una “post-democrazia”, il Parlamento e il Governo, invece di essere luogo di composizione di interessi rappresentati dai partiti, diventano teatro di scorrerie individuali dei leader, di invocazione dell’uomo salvifico “tecnico”, della speranza che si risolva istituzionalmente una crisi che dovrebbe essere risolta politicamente.
In questo senso, a tutti coloro che hanno degli interessi che attualmente non sono tutelati (i precari, i disoccupati, coloro che non riescono ad accedere alle cure e all’istruzione pubbliche ecc.) non resta che sperare che nell’eventuale nuovo esecutivo Draghi siano proprio le idee, e particolarmente quelle del suo maestro, ad avere la meglio sugli interessi dei pochi che continuano ad arricchirsi nonostante la pandemia e la crisi.
Risuona infatti oggi così urgente il monito di Caffè: «Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili».
L’ultimo governo tecnico che l’Italia ha conosciuto è servito alle forze politiche che sostenevano Monti a inserire il pareggio di bilancio in Costituzione; votato da Pd, Forza Italia, Lega Nord, Italia dei Valori, Unione di Centro pressoché all’unanimità, così dimostrando che i governi “tecnici” sono pieni di politica.
Possiamo solo sperare, insomma, che quello che dovesse venire serva, al contrario, a fare ciò che Caffè auspicava: insistere sulla piena occupazione e la lotta alle «sofferenze umane non contabilizzate su cui poggia il capitalismo maturo».
In fondo, egli stesso metteva sempre in guardia dal conformismo: del pensiero, dell’informazione ma anche e soprattutto dal conformismo economico, a quella ricetta, quella neoliberista, che gli sembrava negare il benessere (diffuso, non di pochi) di cui la società potrebbe godere e a cui dovrebbe tendere anche l’azione dei suoi colleghi.
Federico Caffè non credeva nei tecnici e per questo dobbiamo sperare che, a differenza di tanti commentatori e politici, non vi creda neanche Mario Draghi.
Ho sottolineato qualcosa, ma sarebbe da sottolineare tutto.
Rosa Fioravante, leggo nel suo profilo, è una donna di sinistra e ha 28 anni. E’ nata quindi con la seconda repubblica, non ha mai assaporato la prima repubblica, la sua prima consapevolezza intellettuale da adulto è datata più o meno al governo Berlusconi del 2008.
Eppure, in una frase, coglie bene l’essenza che differenzia la prima dalla seconda repubblica: “luogo di composizione di interessi rappresentati dai partiti” contro “teatro di scorrerie individuali dei leader e di invocazione dell’uomo salvifico tecnico”.
Certo, la prima repubblica era anche altro, e si è chiusa con Tangentopoli. Ma, se andate a sommare tutti i procedimenti giudiziari della seconda repubblica, vi ritroverete una tangentopoli informale da leccarsi i baffi.
Quindi chi è portatore di interessi non più tutelati (precari, disoccupati, espulsi dalle cure e dall’istruzione; e, aggiungo io, tutto il mondo che gira attorno al turismo, alla ristorazione, alla cultura, al divertimento) può solo sperare che Draghi abbia delle idee, perché i partiti palesemente non ne hanno e soprattutto non sono più i “mediatori” di nulla.
Quali idee? E qui c’è un’altra chicca della Fioravante. “Idee, e particolarmente quelle del suo maestro”. Il che significa, garbatamente: «Idee. Ma, si spera, non le TUE idee, caro Draghi».
Poi la Fioravante prende da Federico Caffè due frasi note nell’ambiente post-keynesiano, ma non certo al grande pubblico.
«Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili».
L’altra la riscrivo come citazione esatta
«Il capitalismo maturo, al pari di quello originario, poggia su sofferenze umane non contabilizzate, ma non per questo meno frustranti e degradanti».
Insomma, un bell’articolo. Così posso partire dalle radici, da Federico Caffè.
Radici post-keynesiane
Federico Caffè è uno dei principali diffusori delle teorie keynesiane in Italia. Delle teorie-prassi keynesiane, per essere più precisi: politica economica, welfare, crescita dei redditi dei piccoli attraverso il lavoro.
E’ uno dei più importanti, perché era un formatore: mille tesi di laurea “keynesiane” producono non dico una classe dirigente, ma una “atmosfera keynesiana” diffusa, che si traduce alla fine nell’icona che cito spesso.
A San Martino in Rio, alla fine anni ’60 del secolo scorso, l’operaio monoreddito con 2 figli comprava casa coi soldi suoi e senza mutui.
Era formatore anche perché scriveva spesso articoli sui giornali: Il Manifesto, il Messaggero, l’Ora.
Descriveva il mercato come un meccanismo difettoso, nel quale l’intervento pubblico correttore non era una distorsione del mercato stesso, ma una necessità.
Federico Caffè scomparve da casa il 15 aprile 1987. Di lui non si seppe più nulla; venne dichiarata la morte presunta nel 1998.
Una delle mille tesi di laurea seguite da Caffè fu quella di Mario Draghi, 1970. Si intitolava “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio”. Draghi si laureò con lode e divenne anche assistente dello stesso Caffè.
Draghi ricorda l’episodio il 9 novembre 2006, inaugurazione del 100° anno accademico dell’Università La Sapienza. La sua tesi “era sulla moneta unica e concludevo che la moneta unica era una follia, una cosa assolutamente da non fare…”.
Il Draghi keynesiano direi che finisce qui. Nel 1971 va al MIT, e il passaggio in America deve avergli fatto intuire che cominciava a tirare aria neoliberista. Conclude gli studi al MIT nel 1977, fa docenza universitaria fino al 1991, ma soprattutto a un certo punto “sboccia” nell’attività istituzionale.
Inizia nel 1983 come consigliere del Ministro del Tesoro Giovanni Goria, nel primo governo Craxi. Dal 1984 al 1990 ricopre la carica di Direttore esecutivo presso il Consiglio di amministrazione della Banca Mondiale. Nel 1991 diventa Direttore Generale del Tesoro, e qui comincia il bello.
Il Britannia e l’inizio delle privatizzazioni
Siccome quando si parla del panfilo Britannia si prende sempre l’etichetta di complottista, preferisco descrivere la vicenda con le parole di Fulvio Coltorti, stretto collaboratore di Enrico Cuccia a Mediobanca.
Le parole sono tratte da una lunga intervista su “Nuova Antologia”, settembre 2016, per i 70 anni di Mediobanca. (Trovate il PDF integrale su Internet, digitando le parole chiave NUOVA ANTOLOGIA COLTORTI DRAGHI)
L’Europa e il panfilo di S.M. britannica
Per l’Italia l’inizio degli anni Novanta è il periodo delle privatizzazioni.
Viste come strumento per ridare efficienza alle grandi imprese pubbliche, ma soprattutto reclamate dalle forze europee che tuonavano contro l’insostenibilità del nostro debito pubblico.
Per giunta, nel febbraio 1992 il Trattato di Maastricht impose il passaggio da una struttura dell’economia in cui dominava la presenza pubblica ad una nuova basata sul «mercato».
Il nuovo paradigma destinato a dominare l’economia e le nostre vite fino ad oggi.
In finanza questo è un concetto abbastanza ingenuo: sia perché non esistono mercati in libera concorrenza (tutti i gruppi finanziari sono oligopolistici), sia perché non esistono quei mercati perfetti immaginati dagli accademici, che gli anglosassoni sbandierano per giustificare la loro calata nella penisola.
Una «calata» che venne resa possibile da un poderoso «aiuto di Stato»: con il solito Andreatta che vede la necessità di rompere quello che, a suo dire, è il monopolio di Mediobanca. Questo «aiuto» prese il via a bordo del «Britannia», un vecchio panfilo della regina d’Inghilterra ormeggiato nell’occasione a Civitavecchia.
In un’Ansa delle 16 e 27 del 2 giugno 1992 si legge: «[…] banchieri, imprenditori e l’unico politico a bordo, l’ex ministro del Tesoro Nino Andreatta, hanno ascoltato diligentemente le relazioni sulle privatizzazioni nel salone da pranzo della Regina. Ma l’interesse dei cento ‘vip’ in crociera regale è salito alle stelle quando, dopo gli aperitivi e la colazione, sono cominciate a piccoli gruppi le visite guidate al Britannia».
Mediobanca non fu invitata a questa anteprima del banchetto delle privatizzazioni.
L’evento, a porte chiuse, fu organizzato da una banca anglosassone; con intervento iniziale dell’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Presenti i vertici di IRI, ENI ed ENEL. Andreatta chiese chi nominava il management nelle public companies inglesi: per tranquillizzarlo gli fu risposto che una volta insediatosi il management poi non cambia più perché l’azionariato diffuso non trova il modo di coagulare scelte di cambiamento…
Come reagiste in Mediobanca?
Qualche anno dopo, il 28 ottobre 1996, all’assemblea annuale, Vincenzo Maranghi rispose ad un azionista «[…] mi vorrebbe spingere a togliermi qualche sassolino dalla scarpa, anche perché non ho le scarpe da yacht e non ho partecipato alla crociera del panfilo reale […]».
Ma non è questione di essere stati o meno invitati. Ciò che non tornava e non torna in quella operazione è che in tutti i Paesi europei le privatizzazioni furono affidate preferibilmente a banche nazionali, mentre da noi il ministero del Tesoro stendeva addirittura un tappeto rosso alle banche d’affari straniere affinché calassero in Italia. Da sole non sarebbero mai riuscite a scalfire la posizione di Mediobanca. Esse potevano già tentare da tempo la calata nella penisola, perché Londra è più vicina di quanto si possa pensare. Eppure, ricordo una battuta in Bankitalia, i nostri imprenditori quell’aereo per Londra non lo prendevano.
Con il «Britannia» il gioco fu diverso perché lo stesso governo rassicurò le banche estere (delle quali erano già note le azioni collusive e anticompetitive) con le laute commissioni che avrebbero guadagnato dalle imminenti privatizzazioni.
Quanta poca sostanza vi fosse nei presupposti di questa politica sarà dimostrato poco dopo, nel gennaio 2001, quando verrà diffuso il Report on consolidation, promosso nel 1999 dai ministri delle Finanze e dai governatori delle Banche centrali del «Gruppo dei Dieci». In tale rapporto è scolpita l’ennesima smentita della teoria di Andreatta: «In Italia un esame approfondito svolto dalle autorità preposte alla tutela della concorrenza ha concluso che, sebbene il settore sia dominato da un ristretto numero di aziende, non si riscontra evidenza di abusi. Al contrario, studi relativi ai mercati obbligazionari degli Stati Uniti hanno messo in evidenza l’esistenza di politiche di prezzo non concorrenziali e aumenti di concorrenza nel caso di ingresso di nuovi operatori».
Ecco quindi l’essenza del Britannia, tratteggiata con parole non mie.
Tra gli attori ci sono certamente Andreatta e Draghi.
Il curriculum di Draghi
La stagione delle privatizzazioni ha come necessario preambolo il cosiddetto divorzio Tesoro-Bankitalia (Andreatta-Ciampi). L’affidamento del debito ai “mercati” porta all’esplosione del debito stesso (58% del PIL nel 1981, 105% del PIL dopo 10 anni), esplosione generata attraverso gli interessi passivi.
A questo punto si rende “necessario” privatizzare, per rimettere il debito sotto controllo.
Visto in altro modo, nel decennio 1981-1991 abbiamo dato alla finanza internazionale i soldi per comprare pezzi d’Italia: comprare l’Italia coi soldi degli Italiani, uno stupendo gioco di prestigio (per “loro”).
Nel 1991 l’uomo chiave si insedia: Mario Draghi viene nominato direttore generale del Ministero del Tesoro e ci resta fino al 2001.
- Dal 12 aprile 1991 al 23 novembre 2001 è direttore generale del Ministero del Tesoro, sotto 10 diversi governi.
- Dal 1993 al 2001 è anche presidente del Comitato Privatizzazioni.
- Dal 2002 al 2005 va ad “allenarsi” in Goldman Sachs.
- Il 16 gennaio 2006 diventa Governatore di Bankitalia.
- Il 24 giugno 2011 viene nominato Governatore della BCE.
- Il 5 agosto 2011, assieme al Governatore BCE uscente Trichet, scrive la famosa lettera estiva che destabilizza Tremonti e il governo Berlusconi, portando poi alla loro caduta del novembre 2011.
Draghi può essere indicato come il padre del Testo unico bancario del 1993. Con quel testo si crea il concetto di “banca universale che ha natura imprenditoriale” e salta la separazione fra banche commerciali e banche d’affari: quella separazione era voluta dalla legge bancaria del 1936, che a sua volta imitava la legge di separazione americana, la citatissima Glass-Steagall.
E’ anche autore del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (o Testo unico della finanza, o TUF, o Legge Draghi).
In pratica le banche come le conosciamo e la finanza come la conosciamo hanno molto del DNA di Mario Draghi.
Senza contare poi che con le sue privatizzazioni 1993-2001 si viene anche a creare un “effetto collaterale” non di poco conto: Bankitalia, un tempo in mano a banche pubbliche ed enti pubblici secondo il suo Statuto, con le privatizzazioni passava via via in mano a privati.
L’elenco dei proprietari viene rivelato dal già citato Fulvio Coltorti, creatore di un dossier di Ricerche & Studi di Mediobanca. Indagando sui bilanci di banche, assicurazioni ed enti, riuscì a ricostruire le quote dei partecipanti al capitale di Bankitalia.
L’elenco viene divulgato in una sede insolita: Famiglia Cristiana, primo numero dell’anno 2004. “La Banca dell’Italia” era in mano ai privati, tranne un 5% all’INPS e una piccola quota all’INAIL.
Dopo che l’elenco segreto era diventato il segreto di Pulcinella, anche Bankitalia si rassegna e mette l’elenco dei proprietari sul suo sito.
Quindi :
- il 20 settembre 2005 Bankitalia comunica ufficialmente di essere in mano a privati
- il 22 settembre 2005 Tremonti torna al MEF
- il 19 dicembre 2005 Fazio rassegna le dimissioni da Governatore di Bankitalia.
Antonio Fazio, l’ottimo Antonio Fazio. Al contrario di Draghi, che non ricordava più la sua tesi del 1970, Fazio aveva conservato la consapevolezza che la moneta unica era una follia, che il rapporto di cambio fisso avrebbe provocato un “bradisismo” nelle economie più deboli dell’Europa. Lo disse in Parlamento, inascoltato.
- Il 28 dicembre 2005 viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge n.262 “Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari”. All’interno c’è un passaggio chiave.
«Con regolamento da adottare ai sensi dell’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, è ridefinito l’assetto proprietario della Banca d’Italia, e sono disciplinate le modalità di trasferimento, entro tre anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti pubblici».
Visto che, con le privatizzazioni, Bankitalia era diventata privata, tutti i privati dovevano riconferire le quote allo Stato o ad altri enti pubblici, entro 3 anni. Il tutto per ottemperare allo Statuto di Bankitalia stessa.
E visto che ormai di enti pubblici ne erano rimasti ben pochi (le banche pubbliche erano state tutte privatizzate) quel breve articolo di legge chiedeva di fatto che lo Stato diventasse proprietario di Bankitalia.
Non so se Antonio Fazio avrebbe eseguito il contenuto della legge.
E’ certo però che Mario Draghi, che si insedia il 16 gennaio 2006, non esegue, ma rilancia. Non può farlo da solo, gli serve una nuova maggioranza politica.
Nel 2006 si propone alle elezioni la più eterogenea maggioranza governativa della storia italiana, dove si vuol tenere insieme la radicale Emma Bonino e la teodem Paola Binetti, Vladimiro Guadagno detto Luxuria con Clemente Mastella, i comunisti estremi con la Sudtiroler Volkspartei. 14 partiti per la cosiddetta “Unione”, che vince per 24.755 voti. Una vittoria di Pirro dello 0,07%.
Ma vincere era necessario, per fare almeno “quella cosa”.
Col DPR del 12 dicembre 2006 viene modificato l’articolo 3 dello Statuto di Bankitalia, che prima recitava così
«In ogni caso dovrà essere assicurata la permanenza della partecipazione maggioritaria al capitale della Banca da parte di enti pubblici o di società la cui maggioranza delle azioni con diritto di voto sia posseduta da enti pubblici»,
articolo in consonanza con la già citata legge del 28 dicembre 2005.
E adesso diventa così
«Il capitale della Banca d’Italia è di 156.000 euro ed è suddiviso in quote di partecipazione nominative di 0,52 euro ciascuna, la cui titolarità è disciplinata dalla legge. Il trasferimento delle quote avviene, su proposta del Direttorio, solo previo consenso del Consiglio superiore, nel rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza dell’Istituto e della equilibrata distribuzione delle quote».
Il trio :
- Draghi (proponente),
- Prodi (esecutore, prosecutore di Andreatta),
- Napolitano (decretatore)
ha dato la botta decisiva: l’ente pubblico, già sparito nei fatti da Bankitalia, sparisce anche di diritto con la modifica dello Statuto.
Questo è il curriculum di Draghi per l’Italia.
Draghi europeo
Draghi in Europa ha fatto tutto quel che serviva per salvare l’Euro, nella crisi che ci accompagna in permanenza dal 2008: ha inondato i mercati di miliardi creati dal nulla col Quantitative Easing.
Nulla si è mosso a livello di economia reale; assente anche quel minimo di inflazione che è stimolo per l’economia ed effetto di un’economia in movimento.
Ricordo volentieri Draghi in questo brevissimo siparietto
dove un ingenuo o finto-ingenuo giornalista interviene dicendo: «Mi chiedo: la BCE può mai finire i soldi?»
Tra risatine, tossettina, e imbarazzata testa bassa Draghi risponde: «Beh… Tecnicamente no, non possiamo finire i soldi. Quindi abbiamo ampie risorse per far fronte a tutte le nostre emergenze. Penso che questa sia l’unica risposta che posso darle.»
Certo, non può dare la risposta semplice: «I soldi li creiamo dal nulla, come potrebbero mai “finire”?»
Un Caffè per Draghi
Chissà se le radici ti segnano in profondità.
Chissà se un uomo che ha vissuto da neoliberista, creando di fatto il sistema neoliberista in Italia, conserva ancora dentro, in qualche anfratto, le radici keynesiane create da Federico Caffè.
Quando hai 73 anni e sei già stato “l’uomo ovunque” puoi riuscire a staccarti garbatamente dal mondo neoliberista e fare qualcosa di vagamente keynesiano per il popolo?
Anche perché Draghi ha un extra rispetto a Federico Caffè: sa che il denaro si crea dal nulla.
Quando Draghi si laureò nel 1970 Nixon non aveva ancora spezzato il legame dollaro-oro; la percezione del denaro che si crea dal nulla non era ancora chiara e consolidata.
E poi, dicono, non è cattivo. Non fa parte di quella finanza feroce che desidera la riduzione della popolazione mondiale a 2 miliardi, perché gli altri uomini sono ormai inutili per “loro”.
Al massimo fa parte di quel neoliberismo elitario che vive in un altro mondo, e proprio non percepisce le «sofferenze umane non contabilizzate su cui poggia il capitalismo maturo».
Se devo guardare la storia di Draghi, siamo rovinati.
Se penso alle radici di Draghi, posso anche sperare, come Rosa Fioravante, che Draghi agisca con le idee del suo maestro.
E, sempre usando la Fioravante, dico anch’io «Federico Caffè non credeva nei tecnici e per questo dobbiamo sperare che, a differenza di tanti commentatori e politici, non vi creda neanche Mario Draghi».
Insomma, se dobbiamo avere un Draghi, che almeno non ci tocchi anche una Fornero.
© Giovanni Lazzaretti giovanni.maria.lazzaretti@gmail.com