Nella strategia dinamica di Putin, i referendum nelle quattro Regioni dell’Ukraina orientale per l’adesione o meno al territorio russo erano una operazione della soft-power, con la quale si è tentato di portare al compimento obbiettivi legittimi senza ulteriore spargimento di sangue, quindi sospendendo il conflitto militare per spostarlo nel campo del Diritto internazionale – materia giuridica volutamente sottoposta a tanti equivoci ed oscurantismo. Se i nostri esperti mediatici non fossero così dediti alla propaganda e alla disinformazione, avrebbero cercato di illuminare meglio – data l’implicazione con la geopolitica – proprio il campo del Diritto internazionale, invece di ripetere ancora il demenziale ritornello che “c’è un aggressore e un aggredito”. O come ha dichiarato Lavrov all’ultima Assemblea generale della ONU: “Invece del dialogo dobbiamo affrontare la disinformazione e le bugie dell’Occidente che minano la fiducia nelle leggi internazionali e nelle istituzioni internazionali”.
Quello che in sintesi bisogna sapere è che, quando si parla di Diritto internazionale, si intende l’insieme delle fonti contenenti norme giuridiche vincolanti su piano internazionale, di cui quelle principali in ordine cronologico sono: la Carta delle Nazioni Unite del 1945, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, i Patti internazionali del 1966 su diritti civili, politici, economici, sociali e culturali, a cui si aggiungono una serie di Convenzioni regionali e internazionali su aspetti di diritto più specifici. Tali norme e principi vengono in seguito recepiti dall’Atto finale di Helsinki del 1975, il quale segna uno spartiacque molto importante: con l’Atto di Helsinki viene stabilita per la prima volta la priorità dei diritti umani e della sovranità dei soggetti originari – individuali e collettivi, quindi anche dei popoli – rispetto alla sovranità degli Stati. Tale priorità si basa sul fatto che i diritti individuali, in quanto innati e inderogabili (ius cogens), sono antecedenti e superiori agli interessi degli Stati e le loro leggi; ma altrettanto prioritari sono anche i diritti dei popoli, a maggior ragione se le aspirazioni di un popolo non dovessero coincidere con le politiche dello Stato che lo incorpora (o che lo domina dall’esterno, come nella fattispecie delle colonie), laddove per “popolo” viene intesa “qualsiasi comunità umana unita da un comune patrimonio culturale (lingua, storia, tradizioni, religione) e da un comune progetto di futuro politico, la cui realizzazione comporta l’esercizio del diritto dell’autodeterminazione (H. Gros Espiell)”.
In altre parole, a partire dagli anni 80 inizia a prendere corpo un nuovo Diritto internazionale, secondo cui il principio di sovranità degli Stati e di non ingerenza negli affari interni, su cui era imperniato il vecchio Diritto internazionale, cede al principio dei diritti umani e dell’autodeterminazione dei popoli: cioè, nell’antinomia creatasi fra i due principi-guida viene stabilita una gerarchia, secondo cui i diritti attinenti alla dimensione umana, come il diritto alla vita, all’identità, all’autodeterminazione, all’eguaglianza, prevalgono sul concetto di integrità territoriale e sovranità statale armata. Al riconoscimento di questa nuova gerarchia aderiscono anche il Parlamento europeo con la Risoluzione dei diritti umani del 1989 e il Consiglio di sicurezza con la Risoluzione per l’intervento umanitario a favore dei Kurdi del 1991. C’è da aggiungere che questo primato dei diritti degli uomini e dei popoli rispetto ai diritti degli Stati viene sottoposto alle condizioni di non violenza e dell’uso di strumenti e metodi democratici, come negoziati, referendum, plebisciti, elezioni, così come al dovere di affidarsi alle autorità sovranazionali, come l’Organizzazione delle Nazioni Unite o altre istituzioni regionali, garanti dei rispettivi diritti.
In totale adesione a queste norme e condizioni sono stati eseguiti i Referendum nelle Regioni separatiste di Crimea e di Donbass nella primavera del 2014, i quali però non hanno ricevuto il riconoscimento dalla comunità internazionale delle Nazioni Unite, come è accaduto per analogia anche agli ultimi referendum. Ma perché, visto che in Ukraina c’era l’aggravante di un colpo di Stato illegittimo con le consequenti repressioni e persecuzioni delle popolazioni russofone, miranti ad abolire la loro identità? Il consolidarsi del nuovo Diritto internazionale testimonia che quasi sempre la rivendicazione del diritto di autodeterminazione è dovuta ad aggressioni armate per mano dell’esercito di uno Stato, e che quasi sempre l’atteggiamento iniziale di quel Stato è la repressione dei movimenti popolari, contando sul principio di non ingerenza di Stati terzi, anche se i conflitti interni spesso diventano conflitti internazionali, come si è dimostrato anche con il caso di Ukraina. Ma a questo punto, a cosa serve un Diritto internazionale che “stravede” per i diritti delle comunità e dei popoli senza difenderli realmente? Che senso ha la sua formale esistenza e vigore giuridico se non c’è un allestimento procedurale sovranazionale e un adeguato sistema di garanzie? E a pensare, non bisogna nemmeno scoprire l’acqua calda, perché basterebbe il ricorso a referendum con osservatori internazionali indipendenti che monitorassero sulla loro regolarità. Ma forse è proprio lo strumento del referendum che le tecnocrazie occidentali temono, perché i referendum, oltre ad essere l’unica forma di democrazia diretta, danno sempre esiti inaspettati e non graditi alle élite, come è accaduto con la Brexit, o prima ancora con la non adesione della Norvegia alla UE in base al referendum del 1994 (chi sa, con i referendum, quanti paesi avrebbero aderito alla UE e all’euro?), o il referendum che intende organizzare Orban per interpellare il popolo ungherese sulle sanzioni alla Russia: qualcosa da augurare come prassi per tutti i popoli europei.
È vero che per dirimere l’escalation fra il regime di Kiev post Majdan e le Repubbliche di Donbass e Crimea sono stati stipolati gli Accordi di Minsk, ma tali accordi erano volutamente incompleti, senza clausole sanzionatorie in caso di infrazione delle norme, motivo per cui i governi ucraini li hanno prontamente infranto, nell’inerme passività degli Stati OSCE garanti dei trattati. Nonostante le evidenti lacune della diplomazia europea, nell’indomani dell’intervento russo la comunità europea (e più propriamente i suoi media) si è aggrappata alla tesi che il governo ucraino doveva difendere non solo la propria sovranità e integrità territoriale, ma anche i valori democratici occidentali, per cui meritava di essere sostenuto ed aiutato a oltranza. Una tesi doppiamente errata, prima perché contraria allo stesso Diritto internazionale che, come abbiamo visto, dà la priorità ai diritti umani violati, e non alle frontiere violate, e poi perché falsa nel giudizio di merito: un governo che usa discriminazioni e repressione sistemica verso le proprie popolazioni/minoranze non può essere considerato democratico.
In un mondo normale, le controversie fra gli Stati e le comunità al loro interno sarebbero state effettivamente gestite dall’ONU, ma nel mondo in cui ci troviamo nessun organo sovranazionale sarebbe in grado di elaborare soluzioni adeguate sotto le pressioni di uno Stato che si è proclamato egemone mondiale, e quindi al di sopra del Diritto internazionale: egemonia basata su un’incontrastabile potenza militare, sancita con il lancio delle bombe atomiche su Nagasaki e Hiroshima. Non a caso oggi la minaccia nucleare viene enfatizzata proprio dal governo americano, come una forma di reminiscente auto-confessione di intenti. Con la loro pretesa di egemonia assoluta, gli USA non solo invalidano il Diritto internazionale, sostituendolo con le regole del proprio gioco, ma creano un bizzarro paradosso: malgrado fino a qualche decennio fa vigesse il vecchio Diritto internazionale, cioè quello della sovranità armata e la difesa dei confini, gli USA hanno collezionato decine e decine di interventi negli affari interni di Stati sovrani senza alcuna autorizzazione nemmeno da parte del loro Congresso. Mentre oggi, nell’era della globalizzazione e della interdipendenza planetaria, invece di promuovere un nuovo ordine più democratico e multipolare, con nuove forme di statualità, meno territoriale e più fluida, gli USA spingono gli Stati occidentali verso il riarmo, sulla scia della paura dell’espansionismo russo, quando invece è evidente che l’intervento russo in Ukraina è stato la risposta al deficit procedurale del Diritto di autodeterminazione dei popoli, oltre che all’espansionismo minatorio della NATO.
Bisogna riconoscere che, in un mondo che idealmente si immagina senza confini, il sistema internazionale non è assolutamente preparato a gestire pacificamente i processi di autodeterminazione dei popoli (eccezion fatta per la decolonizzazione dei paesi del Terzo mondo), quindi i popoli devono o ricorrere alla hard power o lasciarsi sopprimere da regimi criminali. In realtà, il numero delle tensioni separatiste sarebbe pari se non superiore al numero degli Stati, con tante di quelle che nella geopolitica vengono definite “zone limitrofe di conflitto”. Ecco perché i conflitti di separatismo in Ukraina, sorti otto anni fa, per una UE saggia e politicamente autonoma sarebbero stati l’occasione storica per dimostrare alla comunità internazionale come si ottiene la ristrutturazione pacifica di una zona critica. Per la UE l’Ukraina avrebbe potuto diventare un formidabile esperimento di Diritto internazionale, una nuova figura giuridica da prendere in esempio dal resto del mondo. Essendo cruciale dal punto di vista geografico ed essendo abitata da numerosi gruppi etnici, avrebbe potuto diventare un territorio transnazionale, il che significa un territorio fortemente federalizzato e sotto la diretta autorità di organi internazionali, ma anche una specie di patrimonio dell’umanità dal punto di vista geo-antropologico: multietnico, multirazziale, multiculturale, arcobaleno e di tutto in più, una ambasciatrice di pace per il mondo intero, con il compito principale di gestire e promuovere laboratori permanenti di multiculturalità, magari sotto il carismatico patronato di un Zelensky lucido e costruttivo, candidato permanente a Nobel per la pace. Una trans-nazione che avrebbe beneficiato di facilitazioni economiche e commerciali, lavorando per la cooperazione fra l’Europa e l’Eurasia. Un progetto realmente possibile, nonostante l’ipotesi possa suscitare ironia, forse perché all’obbiettivo del Nobel per la pace Zelensky ci arriverà lo stesso, per manifesto destino, percorrendo però la strada diametralmente opposta. Con l’occasione perduta di creare una Ukraina moderna e pacifica, l’Europa ha perso la possibilità di smentire se stessa, ossia il fatto di essere profondamente guerrafondaia, tristemente decadente, priva di vitalità politica e totalmente sterile di nuove idee.
09 Ottobre 2022
Zory Petzova