Per ironia della sorte, il referendum – unico strumento di democrazia diretta concesso ai cittadini dalla Costituzione, questa volta dovrà essere esercitato in opposizione all’organo di rappresentanza di quelli stessi cittadini, nell’eventualità di un suo sostanziale ridimensionamento. In questo modo la volontà diretta del corpo elettorale dovrà scontrarsi con la propria immagine distorta nell’ingannevole specchio della “democrazia rappresentativa”, dove il popolo – detentore della sovranità ma la cui volontà diretta è limitata alla sola funzione abrogativa delle leggi – dovrà prestarsi al gioco di decidere sul valore numerico dell’unico organo che in teoria lo rappresenta perché direttamente eletto da esso.
Questa sarà inevitabilmente una circostanza in cui l’esercizio della sovranità popolare si brucerà nel corto circuito dell’inutilità dell’esito, qualsiasi esso sia, in quanto non è la quantità numerica del Parlamento a dover essere posta sotto esame, ma la sua stessa funzione: il grado e la qualità della sua rappresentanza, la fedeltà che esso garantisce alle istanze dei cittadini e alle politiche di interesse nazionale, nonché la sua stessa utilità e ruolo in regime di incompatibilità con le funzioni dell’Unione Europea e le sue istituzioni. Da un’assemblea parlamentare, la cui maggioranza è presentata da una forza politica che fra i 5 punti della sua piattaforma elettorale proclamava il principio della Democrazia diretta e il suo allargamento, sarebbe stato logico aspettarsi piuttosto una legge di revisione dell’art. 75 della Costituzione, una legge che abolisse i limiti all’istituto referendario che tale articolo pone, istituendo anche il referendum propositivo, comprensivo di quello consultivo, nonché l’introduzione di altre inedite forme di controllo diretto delle istituzioni. Una Costituzione che sancisce che “la sovranità appartiene al popolo” avrebbe dovuto lasciare maggiori margini verso cui evolversi in tema di perfezionamento delle forme dell’esercizio di tale sovranità.
E’ davvero rilevante il numero di un parlamento costituito da nominati scelti a piacimento dai capi partito? Dove non viene esercitata la coscienza civica dei singoli parlamentari, applicata volta in volta alle proposte legislative, ma il gioco di potere dei soliti partiti che si appropriano dell’organo di rappresentanza come di una società per azioni privata, spartendosi poltrone e privilegi? La questione del numero dei parlamentari non può rimanere sconnessa dalla questione della Legge elettorale, per cui un numero più alto avrebbe senso solo con un sistema integralmente proporzionale, privo di soglie di sbarramento, di collegi uninominali e premi di maggioranza, dove la cittadinanza potrà essere rappresentata anche da associazioni, comitati civici e forme d’organizzazione informali, ottenendo un quadro molto più fedele alla pluralità delle istanze elettorali. Ha senso di mantenere il numero vigente dei parlamentari a condizione che nell’ultima legislatura il 40% dei deputati e il 30% dei senatori siano stati assenti in più di un terzo delle votazioni?
Un parlamento numeroso non garantirebbe affatto la pluralità e la democrazia, qualora i deputati eletti dovessero rappresentare sempre e comunque i partiti maggiori, e dove le minoranze politiche non verranno rappresentate neppure raddoppiando o triplicando il numero dei parlamentari. E quale fiducia e considerazione si dovranno coltivare nei confronti di deputati che si accodano al rimorchio dei partiti vincitori pur di ottenere una poltrona? E infine, bisogna credere negli appelli di democrazia di chi ha ucciso la democrazia per una serie di indicibili motivi? Il discorso verte sui partiti, su un sistema partitico che da decenni usurpa in modo incontrastabile il potere legislativo ed esecutivo, oltre che quello dell’informazione, senza risparmiare nemmeno una parte di quello giudiziario, a discapito di ogni effettiva volontà del popolo ‘sovrano’. Il partito, per come si evince dalle dinamiche storiche, si forma come uno stato nello stato, poiché similmente assume una fisiologica rettificazione territoriale che con il tempo tende a sovrapporsi a quella statale, fino ad appropriarsi delle sue istituzioni e soffocarle, non distinguendosi dalla metastasi di una qualsiasi organizzazione mafiosa.
Il partito, anche quando nasce con le nobili premesse di formare una coscienza critica e ad educare all’azione politica, si preoccupa primariamente della propria conservazione e sopravvivenza attraverso l’accesso stabile e assicurato a tutti i livelli del potere. E’ proprio il radicato sistema partitico a determinare la deviazione della democrazia rappresentativa, in quanto i partiti, spinti dalle ambizioni personali dei loro funzionari, degenerano inevitabilmente in comitati d’affari, in curatori di interessi lobbistici stranieri e nazionali, in spacciatori di clientelismi e favoritismi, inclini alla corruzione e disposti a tradire ogni interesse. Il partito, come deducibile dalla stessa etimologia del termine, ha una natura settaria, è separato dal tutto, e quindi non propenso alla visione e alla gestione olistica dell’insieme. I rappresentanti parlamentari, qualora fossero indipendenti da una qualsiasi direzione di partito, avrebbero una responsabilità di mandato molto più elevata nei confronti dell’elettorato, mentre il partito serve a conferire immunità ai nominati, i quali non tengono più conto del proprio operato agli elettori, ma solo ai vertici del partito, il che fa sì che la democrazia rappresentativa si trovi sostituita dalla dittatura di pochi partiti. Alla fine, sono proprio i partiti a essere usati come mezzo di controllo del processo democratico da parte di oligarchie e gruppi d’interesse, a cui oggi si aggiungono le Ong e i sempre più invasivi organismi sovranazionali, in quanto è molto più facile condizionare e plagiare la leadership di un partito, che parlamentari indipendenti, per penetrare nelle strutture amministrative dello Stato. La grande lacuna della Costituzione italiana è stata quella di non aver previsto l’obbligatorietà della consultazione diretta dell’elettorato in caso di adesione dello Stato italiano a trattati internazionali, in particolar caso quando tale adesione potrebbe dare luogo a profondi cambiamenti dell’assetto economico-sociale interno. Non è assolutamente ammissibile che tali trattati siano decisi dai vertici del potere, anche se con un formale passaggio parlamentare, a maggior ragione in un ordinamento che si definisce democratico.
I padri costituenti erano molto restii a dare una disciplina esplicita ai partiti, evitando di stabilire le norme alle quali questi dovevano attenersi, perché erano testimoni disillusi di una esperienza storica dove i partiti storici, in radicale contrasto fra di loro, si erano contesi l’esercizio dei regimi totalitari, coinvolgendo la società civile in implacabili conflitti interni e in disastrose guerre geopolitiche. Per questo l’art. 49 resta sul vago, lasciando che il partito rimanga una istituzione incompiuta, con una generica funzione di mediazione al processo democratico, ma decisamente non un soggetto del potere politico. Tuttavia, questo non ha impedito che fra principi e indirizzi costituzionali e realtà politica si fosse creato un divario enorme, motivo per cui la Costituzione deve essere integrata con nuove norme e istituzioni di democrazia diretta che potranno ricondurre la realtà politica verso una maggiore coerenza con i propositi originari dei costituenti. Per quanto la Costituzione sia un corpus normativo armonioso e coerente nella sua unitarietà, essa dovrebbe essere contemplata anche come un corpo vivo che possa evolversi ulteriormente in direzione dei suoi principi fondanti, fra cui la sovranità del popolo è quello più inderogabile.
Oggi la società occidentale è sufficientemente matura di esperienza storica per rompere con il modello partitico di democrazia – non più sostenibile ai fini della trasparenza e dello stesso esercizio dell’interesse nazionale, ma una parte di essa è pronta a superare definitivamente anche il bisogno psicologico di affidarsi a una qualsiasi autorità che dovrà decidere per le maggioranze, portandole ciecamente nella direzione sbagliata come un gregge. Oggi la diffusione dei mezzi di tecnologia virtuale, che i padri costituenti non potevano prevedere, permette di accogliere e convogliare le migliori intelligenze civiche verso nuove idee e nuove forme di associazione selettiva, che qualitativamente sarebbero molto superiori alla capacità intellettiva di seicento deputati e rispettivo esecutivo scelti senza alcun criterio, se non quello della funzione partitico-oligarchica, e votati dagli elettori per pura tifoseria. Oggi la connessione con le istituzioni e con le leve decisionali potrebbe essere diretta ed esercitare una funzione di controllo e di correzione dell’operato degli organi rappresentativi. L’uso consultivo del web, applicato da alcune forze politiche a livello interno, potrebbe essere adottato a livello nazionale e applicato all’attività del Parlamento; le reti sociali potranno svolgere una serie di funzioni nuove, come quella di proposta e di votazione di atti legislativi di interesse comune, oltre quella della diffusione di un’informazione libera e incensurata. In un momento in cui la società affronta un caso senza precedenti – una pandemia di ambigue connotazioni ideologiche, difronte ai cittadini si apre nettamente il divario fra la dittatura sanitaria, sempre più incombente come prospettiva, e la democrazia diretta, essendo quest’ultima l’unica risposta possibile al paradigma di governo mondialista, ma che ha un grande problema – quello della sua attuazione giuridica.
Di fronte alle sempre più evidenti rivendicazioni da parte dei cittadini del diritto all’effettiva partecipazione alla politica, le élite avevano escogitato circa un decennio fa l’arma ideologica dell’anti populismo, accusando i movimenti di protesta e di contestazione della politica di bassi istinti, mancanza di competenze e di eccessiva semplificazione di questioni complicate. Ma per chi ritiene che gli appetiti delle oligarchie, per usare i termini di Machiavelli, costituiscano il vero detrattore del bene comune, non è difficile vedere come l’accusa di populismo non è altro che una copertura ideologica del connubio fra il sistema partitico e le strutture sovranazionali, che garantisce l’impunibilità di entrambi. In realtà è proprio il populismo che, se ben articolato, potrà rigenerare la vita democratica. Ma in quale modo? Certo non affidandosi ai leader di partito che oramai hanno perso ogni credibilità politica. Nei suoi “Discorsi” Machiavelli indica nella Repubblica romana un modello che, per quanto imperfetto, rappresenta una simmetria istituzionale all’interno della quale il popolo, attraverso le magistratura plebee, può contestare le decisioni e le azioni delle élite oligarchiche le quali, altrimenti, sarebbero “prive di limiti e dannose per gli interessi comuni, oltre che per la stessa sopravvivenza della Repubblica”. L’ordinamento giuridico della Repubblica romana garantiva ai comuni cittadini ampi poteri correttivi e propositivi tramite assemblee, fra cui il Tribunato, a cui le élite non avevano alcun accesso.
Una rilettura attualizzata di Machiavelli, oltre che mostrare la continuità fra il pensiero anti populista di oggi e quello anti democratico di vecchia tradizione guicciardiniana, evidenzia la principale carenza della Costituzione italiana che, purtroppo, non riguarda il numero dei parlamentari, ma la totale omissione di princìpi e di istituzioni anti-elitarie e anti-oligarchiche, propriamente democratiche e partecipative. La necessità di salvaguardare la democrazia dal potere oligarchico non era certo un tema nuovo, ma sicuramente i costituenti si sono affidati all’esercizio correttivo della giustizia da parte del potere giudiziario. Ma in un contesto istituzionale in cui anche l’indipendente potere giudiziario si è rivelato corrotto e politicizzato, senza un Tribunale del popolo, autorizzato a richiamare alla giustizia politici e alti funzionari di Stato nella fattispecie di tradimento dell’interesse nazionale e abuso di potere, nessuna democrazia può definirsi tale. Ecco perché le briciole demagogiche di un referendum abrogativo di poca portata funzionale dovrebbero apparire più come un’offesa alla sovranità del popolo che come un diritto da esplicare.
Zory Petzova
19 Settembre 2020