Nessuno ha un interesse per le libertà personali maggiore di quello dei ceti comuni, secondo Machiavelli, visto che nessuno meglio di loro può conoscere gli appetiti dei potenti. Un’affermazione che rende scontato il criterio secondo cui la vitalità di una società si debba misurare dalla capacità di reazione sincronizzata dei suoi cittadini, nel momento in cui essi sentono di non poter tollerare ulteriori imposizioni e ingerenze da parte dei governanti. In questo periodo di restrizioni delle libertà, la capacità reattiva degli organismi sociali si è manifestata in diversi paesi, europei e non europei, ma non ha avuto luogo in Italia, se non in forme frammentate e individuali, accolte dalle forze dell’ordine con metodi inediti di soppressione dei diritti fondamentali della persona.
Tale definizione di vitalità non può valere per il ceto ‘colto’, in quanto esso è ontologicamente conservativo, e non reattivo, rispetto allo status quo e il potere che intimamente difende, anche se spesso dissimula il proprio conformismo con la costruzione di soluzioni teoriche del bene comune, ma per quanto i ‘colti’ possano affermare di voler perseguire un bene comune, essi sono inevitabilmente ancorati ai loro interessi personali e al loro desiderio di prestigio e di riconoscimento sociale. Infatti, appena messi in condizione di dover esprimere una critica o un’accusa verso le gerarchie di riferimento, essi dimostrano di avere poca cura per gli interessi comuni e poca preoccupazione per la violazione di inviolabili diritti, non nascondendo la loro profonda avversione a qualsiasi forma di protesta di massa.
Un atteggiamento che è tutt’altro che ambiguo, vista la chiara adesione del ceto ‘colto’ alla lunga catena di elaborazioni teoriche in difesa dello status quo, nel quale ambito esso ha potuto passare con grande disinvoltura dall’anti-democrazia (velata da premesse meritocratiche), all’anti-populismo di lunga tradizione guicciardiana e, negli ultimi anni, all’anti-complottismo come bandiera di distinzione culturale targata “mainstream”.
Quest’ultimo in effetti è la sua attuale performance ‘di circonstanza’, provocata dall’emersione di innumerevoli ipotesi e riscontri empirici che rivelano un preesistente e ben articolato piano di gestione e riconversione della pandemia in paradigma sociale da parte delle tecnocrazie sovranazionali, in relazione al quale esiste, tra l’altro, un eccellente studio di analisi dell’accademico francese Patrick Zylberman (Tempetes microbiennes, 2013) che dimostra come questo piano abbia già cercato di mettere radici in altre occasioni, a partire dal 2006 con l’allarme della “grande epidemia” dell’aviaria, per proseguire con la “pandemia” dell’influenza suina nel 2009 e l’epidemia della Mers nel 2013, quando l’OMS prefigurava la morte di un terzo della popolazione mondiale: tutte occasioni fallite per motivi di inconsistenza oggettiva. Forse la pandemia attuale sarà la volta buona?
Le numerose evidenze non proprio dietrologiche hanno messo in seria crisi il ceto ‘colto’ e le sue capacità argomentative, istillando nelle sue file una certa angoscia, per cui esso non ha trovato miglior sbocco che prendersela con i complottisti, in cui vede una minaccia per l’esercizio collettivo della razionalità e il mantenimento di un corretto ordine sociale da pandemia. Ma mentre nell’ambito dell’anti-populismo i ‘colti’ cercavano di cavarsela con le solite teorie elitiste sui bassi istinti dei ceti comuni, “che seguono il leader carismatico perché in questo modo assecondano i bias di conferma del gregge” (comunque vada, arrivano sempre a questo riduzionismo), in questo contingente, non potendo più negare alcune evidenze, essi non si limitano solo a proporre le loro sterili teorie per un mondo migliore, ma si rendono promotori passivi della censura, ratificando, o quanto meno non denunciando, la censura incostituzionale della libera espressione del pensiero. Questo atteggiamento si verifica anche nei casi in cui la censura viene applicata a ineccepibili professionisti e studiosi non schierati con le autorità, fra cui anche tanti medici di prima linea che hanno messo in atto e condiviso conoscenze e soluzioni per affrontare l’emergenza. Censura promossa dal Comitato (Patto) trasversale per la scienza e contro le notizie fake, composto in gran parte di esperti le cui carriere sono legate alle multinazionali farmaceutiche, nonché coadiuvato dai cosi chiamati “debunkers”, che già di per sé rappresentano un’offesa all’intelligenza umana.
Mentre l’accusa di complottismo, rivolta ai scettici, fino a qualche anno fa poteva avere ancora qualche vaga ragione formale per il fatto di essere riferita a teorie e ipotesi congetturali non dimostrabili direttamente, nel contesto dello scenario pandemico le élite tecnocratiche non solo non nascondono più la loro intenzionalità di intervento radicale nel controllo della società, ma ostentano apertamente la loro capacità di sopraffazione su governi e politiche interne, costituendo conflitti d’interesse che superano di gran lunga la necessità di risposta contingente a una crisi pandemica.
Ma cosa è il ceto ‘colto’, come si compone socialmente e come si distingue simbolicamente per differenziarsi rispetto al ceto comune, a cui impulsività populista e complottista è in grado di opporsi con la voce soppesata della ragione?
Parafrasando il filosofo Stefano Sissa, i ‘colti’ (da non confondere con la categoria delle persone intelligenti, che ha una diffusione trasversale) sono le persone che svolgono professioni intellettuali o dirigenziali, professioni anche creative, per le quali è molto importante l’immagine che il pubblico si crea di loro; hanno spesso ruoli professionali poco soggetti a oscillazioni (anche qualora ci dovessero essere dei lockdown protratti), con minori rischi di declassamento e discrete possibilità di carriera, che richiedono di mostrarsi affidabili e allineati rispetto agli apparati di cui fanno parte. Per deformazione professionale amano discutere su ogni accadimento sociale, confidando più del dovuto nel fatto che i problemi innescati all’interno delle relazioni sociali si possono risolvere già solo attraverso un’adeguata tematizzazione nell’ambito dell’opinione pubblica, che condizionerà in questo modo, senza l’uso di forza, il potere decisionale delle istituzioni, portando alla soluzione dei problemi.
In quanto organici alle strutture dirigenziali – burocratiche, accademiche, aziendali -, o quanto meno proiettati verso tali posizioni, i ‘colti’ sono portatori di modelli cognitivi volti a rendere socialmente accettabile e rassicurante il paradigma vigente, comprensibilmente poco disponibili a repentini cambi di metodologia conoscitiva ed epistemologica, anche qualora ci fossero tutte le premesse empiriche per questo. Sono portatori di una coscienza “corretta”, depurata dagli aspetti inquietanti della realtà (spesso rimossi dal loro campo visivo come indicibili tabù) e, a dispetto del loro sbandierato acume, si affidano in modo piuttosto acritico alle versioni ufficiali, fornite dalle autorità politiche e mediatiche o dal sistema di divulgazione scientifica, senza mai problematizzare il fatto che tali conoscenze e informazioni provengano da apparati sociali o/e organismi privati che funzionano secondo logiche non necessariamente improntate all’obiettività.
Una definizione esaustiva come quella di sopra merita una breve rassegna storica per evidenziare il processo involutivo che la gestione del sapere pubblico ha dovuto subire nelle sue declinazioni storiche, fino ad arrivare alle attuali condizioni di arroccamento del sapere specialistico, esclusivo dei cosiddetti “gruppi di esperti”, che tanto suggestiona il ceto ‘colto’.
Nell’antica tradizione greco-romana, la figura del sapiente attingeva autorità simbolica non solo dalla sua vocazione innata, ma anche dalle sue capacità personali, per cui l’unione fra sapere, impegno sociale e valore etico era inscindibile. Per tutto il medioevo il sapere viene concepito come espressione di un talento innato, e non come un’abilità conseguita per via istituzionale, il che rende possibile il grande salto rivoluzionario dell’Illuminismo: Galileo, Descartes, Spinosa, Leibnitz erano pensatori liberi che, senza appartenere a gruppi di potere simbolico, hanno influenzato in modo radicale tutti i rami della scienza.
Il periodo in cui opera Kant sarà l’ultimo a riconoscere ancora il libero pensatore senza definirlo dilettante, ma con la burocratizzazione dell’ordine sociale e l’automatizzazione dei processi produttivi vengono imposti i formalismi e le finzioni giuridiche, accademiche e sociali, il che porta al progressivo declino del pensiero indipendente, ulteriormente mortificato dal dominio delle ideologie politiche. Nell’Ottocento l’università diventa l’unico ente giuridicamente riconosciuto a cui viene conferito il potere di gestire il capitale simbolico del sapere, attraverso procedure interne di attribuzione di certificati, nomine, titoli, che denotano un’esplicita gerarchia accademica, da cui viene escluso ogni libero pensatore non allineato al suo sistema rigorosamente codificato.
All’antica concezione del sapere come talento, vincolato a una deontologia etica, si sovrappone l’idea del sapere come metodo – razionale e asettico, mirato al conseguimento di risultati (profitti), una tendenza che nel post modernismo determina la qualifica strettamente specialistica come criterio di utilità sociale. L’idea del genio, o dell’eretico prodigio che destruttura i paradigmi dominanti, viene abolita a priori perché diventa scomoda per i nuovi centri del potere simbolico. Le università vengono ordinate gerarchicamente in una graduatoria di merito (ranking list), dove le prime dieci dettano gli standard accademici per tutte le altre, costituendo i “think tanks” tecno-scientifici e bio-politici con appannaggio esclusivo della ricerca, che viene opportunamente finanziata dai gruppi d’interesse.
Circa un decennio fa questo panorama viene turbato dall’improvvisa e veloce diffusione della rete come mezzo di comunicazione e libera circolazione di informazione, dando all’utente la possibilità di diventare un emittente, e non solo un ricevente, di contenuti particolari, alternativi all’informazione ufficiale. Questa democratizzazione dell’informazione paradossalmente provoca una sintomatica indisposizione fra gli utenti ‘colti’, i quali, per non perdere credibilità, si impegnano a maggior ragione di promuovere nella rete il sapere degli ‘esperti’ e notizie e opinioni provenienti rigorosamente dalle agenzie e dai media ufficiali, intraprendendo una mirata azione di delegittimazione del pensiero alternativo, inizialmente con la campagna di stigmatizzazione, e in seguito con la diretta invocazione e il sostegno operativo della censura esercitata dagli amministratori delle piattaforme digitali.
Nonostante questa deriva, attualmente i canali web di informazione indipendente, che danno voce ai migliori portatori di coscienza sociale (storici, economisti, costituzionalisti, ricercatori, medici, cittadini comuni), riscuotono complessivamente un seguito più consolidato, anche se meno numeroso, rispetto ai canali di promulgazione mainstream, i quali si contendono un pubblico sempre più inerte e confuso. Si potrebbe dire che sta prendendo forma una massa critica, un’intelligenza collettiva che cresce e che destruttura il sapere degli esperti dell’establishment con un solido metodo etico/scientifico che non teme confronto.
Ovviamente, il ceto ‘colto’ si premura ad etichettare gli esponenti del pensiero non allineato come complottisti senza saper oppore alcuna valida confutazione alle loro tesi. Ma può il ceto ‘colto’ giustificare il proprio anti-complottismo con un’analisi corrispondente alla realtà? La domanda è retorica, perché il problema del ceto ‘colto’ è che non vuole accettare la realtà. Esso condivide una mentalità (un codice culturale) che è incapace di concepire meccanismi complessi – intenzionali e causali, per cui tende ad attribuire i fatti a meccanismi elementari – il caso e la necessità, nutrendo una granitica fiducia nelle “autorità buone”. Anche nell’attuale contesto i ‘colti’ hanno assunto “il caso” come spiegazione della pandemia, escludendo ogni finalismo o dolosità intenzionale della sua gestione, e rifiutandosi di vedere quello che diversi osservatori, come Giorgio Agamben, avvertono come una situazione che sarà il preambolo di “un esperimento più ampio, in cui è in gioco un nuovo paradigma di governo degli uomini e delle cose”. Uno scenario che non risparmierà nemmeno i ‘colti’ e la loro sindrome del mondo giusto, dove il cittadino non avrà più il diritto alla salute, ma diventerà giuridicamente obbligato alla salute, e dove, per citare di nuovo Zylberman, la bio-sicurezza e l’implicito distanziamento sociale saranno il nuovo ordinatore sociale.
Sicuramente i ‘colti’ aspettano che le macro dinamiche diventino talmente cogenti da non poter più essere ridicolizzati per complottismo nel riconoscerle (nessuno più del ‘colto’ ha la paura di sembrare stupido), ma fino a quel momento accuseranno di complottismo ogni interlocutore che vede una dietrologia o l’attuazione di una agenda prestabilita. Perché, per citare di nuovo Sissa, mentre un complottista può essere ridimensionato nella sua inclinazione paranoidea attraverso forme ragionevoli ed empiricamente controllate di valutazione della realtà, il ‘colto’ anti-complottista ha la presunzione di operare già al massimo possibile delle sue funzioni cognitive, laddove in realtà ha soltanto sovrapposto ai meccanismi di difesa primitivi (psicologici) altri meccanismi di difesa più evoluti (razionalizzati), la cui destrutturazione viene percepita dal soggetto con sgomento, come un mero regresso al suo nucleo fondante psicotico. (In realtà, si tratta del meccanismo inconscio della “rimozione del tradimento”. L’idea che le autorità possono perseguire degli scopi non necessariamente per il bene dei cittadini è insopportabile per la persona ‘colta’, tanto quanto lo è per un bambino l’idea che i suoi genitori possano fargli del male.)
Per queste ragioni, nell’attuale contesto pandemico, il ceto ‘colto’ non solo si rivela quello maggiormente soggetto ai meccanismi del pensiero magico (che di regola attribuisce ai ceti comuni), ma diventa il soggetto più dannoso per la società perché, usando la propria credibilità sociale, impedisce di mettere a tema questioni molto importanti e molto urgenti, come lo è in questo contesto la perdita delle libertà democratiche, a partire dalla sacrosanta libertà di pensiero e della implicita “necessità di garantire il massimo di pluralismo esterno, attraverso una pluralità di voci concorrenti, per garantire il diritto del cittadino all’informazione.” (sentenza num. 420 della Corte Costituzionale, 1994). Intimamente il ceto ‘colto’ è anti democratico, e l’attuale emergenza ne è l’inequivocabile conferma.
© Zory Petzova
26 maggio 2020
http://www.linterferenza.info/contributi/complottisti-e-anticomplottisti/
immagine in evidenza: la copertina del libro di William Hazlitt, scrittore e saggista inglese.
4 comments
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