Negli ultimi giorni anche i media mainstream hanno esordito con titoli allarmanti sull’operato di Draghi, denunciando che egli “decide tutto da solo, niente voto in Parlamento e avanti tutta con le armi a Kiev.” Ma tale reclamo è fuori luogo, perché nessuno più di Draghi è stato così coerente con se stesso, e i giornalisti dovrebbero saperlo meglio degli altri. Ancora nel 2013, alla presidenza della BCE, Draghi aveva dichiarato che «l’Italia prosegue sulla strada delle riforme, indipendentemente dall’esito elettorale. Le riforme continuano come se fosse inserito il pilota automatico». Con quel “pilota automatico”, accordato al famoso “whatever it takes”, Draghi stabiliva il principio secondo cui i governi potevano cambiare, ma l’agenda di governo sarebbe rimasta sempre la stessa, ossia che i programmi dei governi nazionali non avrebbero potuto avere alcun margine significativo di deviazione dall’agenda UE: principio comprovato con la gestione esemplare della crisi greca e affermato con la gestione pandemica. Oggi al pilota automatico dell’UE è stato aggiunto a maggior ragione quello della NATO, anzi – aver unito l’UE e la NATO sotto un’unica guida tecnocratica è stata la missione draghiniana per eccellenza, di cui il banchiere è stato ‘meritatamente’ lodato durante la sua visita Oltreoceano.
Va specificato che, nella sua cronologia, il pilota automatico della NATO è antecedente a quello della UE. Pur essendo stata costituita come alleanza di difesa contro l’imperialismo sovietico, paradossalmente la NATO inizia a espandersi e a guadagnare vigore proprio con la caduta dell’URSS. La narrazione della “fine della storia” non era che espressione di una falsa coscienza, secondo cui la fine del regime comunista e l’integrazione della Russia nel sistema capitalistico avrebbero fatto cessare i conflitti ideologici della Guerra fredda e avrebbero inaugurato un’era di pace e progresso globale senza ostacoli. Il concetto di “imperialismo” fu bandito dalla neo-lingua del politicamente corretto, in particolar modo se riferito all’espansione egemonica degli USA, e l’unico ostacolo al quieto futuro veniva indicato nei nazionalismi, ossia nella sovranità politica degli Stati non assoggettati all’egemonia americana, motivo per cui tali governi dovevano essere puniti con “esportazione di democrazia” e “rivoluzioni colorate”. Tutto ciò veniva abilmente accompagnato dalla criminalizzazione mediatica di ogni ‘dittatore’ di turno, cui triste elenco è superfluo ribadire.
La fine della Guerra fredda ha di fatto distrutto le condizioni di equilibrio di potenza fra gli USA e l’URSS, e dal momento in cui la NATO è diventata l’unico padrone del campo, tutti gli staterelli europei, anche quelli storicamente neutrali come Svizzera, Austria, Irlanda, si sono adattati al nuovo ruolo di vassalli, cercando anche con lo statuto ‘neutrale’ di partnership di ricavare il massimo in termini di affari. Ancora nel 1999, con l’aggressione della NATO alla Serbia, si sarebbe dovuto capire che non si trattava solo di funzione di peacekeeping, laddove in questa guerra si manifestarono anche le prime pulsioni interventiste sia di paesi neutrali come la Svizzera (che poi ha partecipato persino in operazioni militari in Afganistan) che della cosiddetta sinistra antagonista. In realtà, l’espansionismo commerciale della Russia è stato immediatamente percepito dagli USA come una minaccia maggiore del comunismo, anzi, come una doppia minaccia, sia politica – in termini di sovranità nazionale, a partire dall’ascesa al potere di Putin, che economica, per via della cooperazione commerciale russo-tedesca, dove il gasdotto North Stream 2 sarebbe stata la sua vera saldatura. E’ stata la Polonia a lanciare l’allarme, dicendo che l’impero russo si stava espandendo usando petrolio e gas invece dei carri armati, un allarme che da Washington veniva rilanciato a tutte le cancellerie europee, non facendo ritardare le occasioni per imporre le sanzioni economiche alla Russia.
Se gli USA avessero voluto integrare la Russia nell’alleanza occidentale, lo avrebbero fatto, neutralizzando in questo modo ogni sua eventuale pulsione espansiva, visto che nel 1999 è stato Putin in persona, in qualità di Segretario della Sicurezza del governo Eltsin, a proporre l’entrata della Russia nella NATO. Allo stesso tempo l’espansione della NATO ad Est non si è mai arrestata, senza una chiara dichiarazione degli obbiettivi e le cause di tale espansione. Questo perché la NATO non aveva una ragionevole strategia geopolitica: si allargava a prescindere dalle contingenze, perché vi era già inserito il pilota automatico del famelico lobbying militare. Essa si è sempre comportata non come una tradizionale alleanza di difesa fra paesi sovrani, ma come un mastodontico apparato d’affari con porte girevoli fra pubblico e privato, che ha alla sua superficie una potente rete di carriere istituzionali, in modo da rendere legali affari spesso illegali, che si consumano all’ombra del segreto militare.
Se la guerra fosse stata fra la Russia e l’Ukraina, essa si sarebbe conclusa in poche settimane, con un Blitzkrieg. Il poderoso fiume di forniture militari che giunge all’Ucraina non è una risposta solidale all’invasione russa, ma il capitolo di un piano decennale, secondo lo schema della società di consulenze Albright, quindi parte dei bilanci delle amministrazioni Bush/Obama/Biden, votati dal Congresso. Ancora nel luglio 2002 la NATO e l’Ucraina festeggiano i loro primi 5 anni di partnership (stando alla pagina ufficiale della NATO), di cui il Majdan è stato il compimento causale. Questo è indicativo di come la spesa in armamenti crei il fatto compiuto, a cui poi viene adeguata tutta la politica con la rispettiva narrazione mediatica, che risulta dissonante perché elabora slogan altosonanti per coprire un avido e spericolato affarismo, che riesce a corrompere i governi nonostante sia dannoso per le rispettive società: un fenomeno con le stesse logiche della mafia, solo che operativo su vasta scala geografica.
Anche l’adesione della Svezia e della Finlandia alla NATO viene narrata come risposta all’invasione russa. Ma in realtà entrambi i paesi sono partner della NATO dal 1994, periodo in cui la Russia era ai minimi storici della propria potenza geopolitica. Nel 2011 la Svezia ha fornito supporto agli USA contro la Libia, e dal 2014 in poi anche in Afghanistan. Ancora nell’autunno 2018 sia la Svezia che Finlandia partecipano ad un’esercitazione militare congiunta con la NATO, che è stata presentata con la premessa di una loro prossima adesione all’alleanza, quindi era tutto già deciso e l’invasione russa è stata solo l’occasione per farlo digerire all’opinione pubblica ignara. Va detto che la Finlandia è uno dei pochi paesi ad aver mantenuto l’obbligo di leva, per cui all’occorrenza potrebbe mobilitare quasi un milione di uomini, ma il vero asso nella manica è la Svezia, sia in termini di potenza militare che di ambizione di dominio geopolitico nel Baltico, senza sottovalutare il valore simbolico, visto che sono stati i vichinghi svedesi chiamati Rus’ a creare lo Stato della Rus’ di Kiev verso la fine del IX secolo. A marzo quest’anno, poco dopo l’intervento russo in Ukraina, anche la Svizzera ha voluto far sapere che collaborava con la NATO ma da paese neutrale, come se la partnership non fosse un’alleanza solo che a condizioni limitate. Un autentico ruolo nel conflitto, per una lunga serie di motivi storici e geografici, spetta anche alla Polonia, che dopo l’estate probabilmente interverrà nei territori all’ovest da Kiev con formazioni di peacekeeping, composte da quote volontarie dei paesi membri, aggirando in questo modo lo statuto della NATO.
Dopo la fine dell’estate, è più che probabile che Draghi venga insediato a qualche alta carica atlantista per accompagnare meglio il pilota automatico della NATO nella sua fase successiva, quella della pressione sulla Russia dal Nord. Questo affinché egli possa preservare anche la propria incolumità politica, visto che nessuno vorrà trovarsi difronte alla rabbia dell’imprenditoria italiana e del mondo del lavoro nella morsa della crisi energetica. Il capitale dell’economia reale sarà ulteriormente sacrificato per il sanguinario lobbying degli interessi bellico-militari, e questa è un’anomalia inspiegabile e senza precedenti. La storia insegna però che gli interessi del ceto borghese-imprenditoriale possono sopravvivere soltanto con una forte reazione/rivoluzione organizzata, e non certo con rassegnazione. La ‘solidarietà atlantista’ in chiave anti-russa non può convivere con gli interessi vitali delle economie europee. Ma, paradossalmente, sarà proprio dimostrando un azzardato vitalismo e un’esuberanza oltre misura che la NATO – moralmente vecchia, ammortizzata e corrotta, decreterà la propria fine storica, che però sarà pagata a carissimo prezzo.
21 Maggio 2022
Zory Petzova