Anche nella geopolitica, come nella politica, le reazioni agli eventi assumono spesso le modalità del tifo calcistico, dove prevalgono commenti emozionali da tweet, o da video-clip, e slogan propagandistici, e nondimeno tale approccio vale per i professionisti dell’informazione, compresi quelli della contro-informazione. Questo accade perché la ricerca del nesso causale non funziona nell’immediato, in quanto nei sistemi complessi la causa e l’effetto possono essere distanti nello spazio-tempo, per cui diventano più fruibili le opinioni sensazionali e di facile formulazione, oltre che quelle volutamente tendenziose e devianti.
Commentati in questo modo sono anche gli ultimi eventi della controffensiva ucraina in Kharkiv e la retrocessione delle truppe russe. Da una variazione tattica è stata costruita una proiezione strategica, celebrando perfino un’imminente vittoria finale di Ukraina. Fin dall’inizio del conflitto, la Russia ha fatto capire che userà l’approccio della “strategia dinamica”, il che significa adeguare di volta in volta le operazioni militari secondo le mosse dell’avversario: sarebbe come avere un navigatore a cui dare la destinazione/lo scopo finale e lasciarlo procedere attraverso i vari ostacoli ed imprevisti. Visto che lo scopo della politica regionale russa era quello dichiarato da tempo, ossia neutralità militare di Ukraina e riconoscimento dell’annessione della Crimea e dell’indipendenza delle Repubbliche separatiste, questo scopo avrebbe potuto essere raggiunto anche senza l’invasione in territorio ucraino – sarebbe bastata la ragionevolezza diplomatica dell’avversario e dei garanti europei, una via che il governo russo ha tentato fino all’ultimo momento.
Dal momento in cui Mosca aveva posto condizioni a Kiev di cessare il fuoco su Donbass (una promessa solennemente scandita dai discorsi elettorali di Zelensky), ma come risposta il 17 febbraio 2022 ci è stato un attacco massivo senza precedenti, con la tempestiva evacuazione di popolazione russofona verso la Russia, e il 20 febbraio 2022 dalla Conferenza di Monaco sono giunte anche le provocazioni ufficiali di Zelensky, con cui l’ex attore faceva capire di voler abbandonare le garanzie poste dal Memorandum di Budapest e costruire una bomba atomica da usare contro Mosca, a quel punto al governo russo non rimaneva che incalzare i propri obbiettivi con altri mezzi. L’intervento russo in Ukraina portava giustamente il nome di “Operazione militare speciale”, in quanto prevedeva l’utilizzo di un potenziale relativamente basso di forza militare, limitandosi a quella rudimentale via terra.
Questo perché all’inizio esisteva sempre un margine di probabilità di poter ottenere lo scopo prefissato in modo agevolato, con poche perdite – umane e materiali, per entrambe le parti. Nello stesso modo in cui i media occidentali invocavano un “regime change” al Cremlino, con l’accerchiamento di Kiev a marzo si sperava in una scissione all’interno dell’esercito ucraino (russofoni contro bandieristi) e in un colpo di Stato contro Zelensky. Di fronte ad attese sbagliate ed evidenti errori di valutazione da parte dei servizi russi, la ritirata da Kiev è stata il secondo esempio di strategia dinamica, il momento in cui è diventato chiaro che il conflitto non sarà più una questione di Blitzkrieg. All’inizio estate, nonostante la fondamentale e consolidata vittoria russa a Mariupol, si faceva sempre più evidente la diretta partecipazione della NATO nel conflitto, motivo per cui la guerra dell’informazione e della logistica veniva primeggiata dagli ucraini, a maggior ragione dopo la copertura territoriale del sistema orbitale Starlink, con cui la NATO era in grado di seguire in tempo reale e con grande precisione ogni spostamento delle truppe russe, e da lì garantire la precisione degli attacchi alle loro postazioni. In pratica, i quadri militari ucraini erano pienamente integrati nella rete di spionaggio e di radiocomunicazioni della NATO, e non solo istruiti e forniti di tecnologia militare di ultima generazione.
A questo punto è parso chiaro che, per i russi – anche se avevano liberato/occupato un territorio di gran lunga eccedente quello delle Repubbliche indipendentiste – continuare con un approccio soft, da semi-guerra, ad intensità relativamente bassa, non era più appropriato e ragionevole di fronte alla brutalità del nemico e al continuo accumulo di competenze e di arsenale bellico in campo avversario, quindi la fase dell’Operazione speciale russa non poteva che considerarsi insufficiente, esaurita e perfino controproducente. Anche perché l’uso della strategia dinamica valeva anche per il campo avversario, pur con modalità e scopi totalmente diversi. L’enorme flusso di denaro e armi a beneficio di Kiev rendeva necessaria una rendicontazione. Il delirio di onnipotenza della cricca di Zelensky aveva il disperato bisogno di dimostrare un qualche memorabile successo contro i russi, ragione per cui il generale dell’esercito ucraino Zaluzhny è stato incaricato con la missione di attaccare la Centrale atomica di Zaporozhye, fortunatamente sotto il controllo dei russi. Pur con l’immancabile aiuto dei servizi inglesi, oltre che con la favorevole narrazione mediatica, tale piano non ha avuto successo, quindi il generale ha dovuto reindirizzare un esercito di circa 30 000 soldati, insieme a un gran numero di mercenari, verso la regione di Kharkiv, per cercare un colpo di successo con cui giustificare gli enormi mezzi investiti nel buco nero di Ukraina. Gli eventi nella regione di Kharkiv, infatti, erano sincronizzati con Ramstein-2, il summit dei ministri degli esteri dei paesi atlantisti, dove è stato varato il nuovo pacchetto aiuti per l’Ukraina, in modo che gli ultimi successi di Kiev servissero per giustificare, difronte all’opinione pubblica occidentale, le folle spese belliche sottrate ai contribuenti.
La buona novella della controffensiva di Kiev ha fatto esultare i tifosi pro-Ukraina: spettatori beatamente incapaci di spiegarsi i benefici personali di un’eventuale vittoria NATO, piuttosto ignari del fatto che in tal caso le élite occidentali porteranno avanti in modo ancora più perentorio la propria agenda – quella della demolizione della classe media e la creazione di una società pienamente controllata. Ma gli ultimi eventi hanno messo in agitazione oltre tutto i filo-russi, il che fa capire che Putin rimane una variabile altamente imprevedibile e sconosciuta. Si è creato il paradosso secondo cui Putin continua ad essere demonizzato dal solito mainstream, che non può rinunciare a un certo repertorio propagandista, e allo stesso tempo viene rinnegato dai filo-russi che lo accusano di usare maniere troppo morbide e di agevolare la disfatta di ciò che fino ad oggi è stato conquistato con tanti sacrifici. Dal punto di vista della strategia dinamica, noi non possiamo sapere a-priori come sarà adattata l’operazione militare russa; sappiamo che Mosca ha tutti i mezzi per staccare completamente la corrente alle truppe nemiche (in senso diretto e metaforico), ma possiamo fare anche una rilettura del largo spettro di prove e segnali che fin oggi si sono palesati, nel contesto e oltre il contesto del conflitto militare.
Contrariamente ai folclorismi mediatici, che lo definiscono dittatore e uomo solo al potere, Putin è un brillante mediatore, un autorevole punto di riferimento di tutti i quattro principali schieramenti politici della società russa – società complessa, dominata da un pluralismo e da un fervore ideologico e culturale senza uguali. Più sommariamente, Putin serve a mediare gli umori anti-guerra e pro-occidentali del ceto medio-alto e quello del capitale industriale, che con l’Occidente fa proficui scambi e affari, e gli impulsi interventisti e antagonisti del ceto medio-basso e dell’apparato industrial-militare, i quali, da una parte animano le varie teorie nazional-tradizionaliste alla Dughin, e dall’altra, spingono verso un’economia di socialismo reale. L’operazione speciale in Ukraina è stata il compromesso fra i due, ed è proprio il secondo schiarimento che in questo momento sta accusando Putin di omissione di mobilitazione, di attendismo e quindi di alto tradimento verso i valori della patria.
Oltre a concedere al presidente russo il dovuto periodo di re-pianificazione, i suoi seguaci e detrattori dovrebbero capire che Putin non è mai stato un amante della guerra, ossia un interventista, e ancora meno uno stalinista comunista. La sua stessa formazione di agente segreto, cioè di tecnocrate, lo rende un pragmatico calcolatore, politicamente moderato e strategicamente ben più raffinato di un qualsiasi generale. D’altronde, Putin non lo nasconde e sottolinea spesso che il suo obbiettivo è l’interesse della Russia nel rispetto della leale cooperazione con i partner sovrani, e nell’interesse della Russia c’è sì il multipolarismo, che le ritaglia il ruolo da centro gravitazionale, ma ci sono anche i rapporti con l’Europa, di cui i russi non possono fare a meno. A differenza di Dughin, Putin non è un euro-asiatista, non vuole la rottura definitiva con l’Occidente e la cortina di ferro che spingerà la Russia nel fatale abbraccio con la Cina, per quanto si potrebbe trattare di un’alleanza invincibile. Putin è sufficientemente folle da credere ancora di poter ripristinare i rapporti con i principali interlocutori europei, sollecitando un iter di pacificazione.
Raccogliendo inaspettatamente gli effetti boomerang delle sanzioni europee, con un aumento triplicato del saldo positivo del bilancio di Stato, Putin ha potuto sperimentare il successo della guerra economica delle contro-sanzioni, e probabilmente questo l’ha indotto a rivalutare i metodi non militari. Così come non è da escludere che Putin, sapendo che gli anglo-sassoni puntano su un conflitto di logoramento, stia optando per una modalità di guerra a basso costo che sia sostenibile su lungo periodo. In ogni modo, Putin è un “soft power man”, anche se di ispirazione zarista, una colomba che solo in casi estremi si farebbe falco. Ma comportandosi in modo così prudente e cauto, egli fa raffreddare e deludere l’enorme seguito di occidentali che su di lui fondano le proprie credenze escatologiche – le aspettative di salvezza da una tirannide “resettista”, priva di etica, che sta annichilendo le basi della convivenza sociale. Solo la Russia potrà salvare l’Europa e ridarle linfa vitale, ricevendone a sua volta, ma non prima di un doloroso e catartico passaggio per gli europei, che sarà il prezzo da pagare per un possibile riscatto.
18 Settembre 2022
Zory Petzova