Per quanto la situazione attuale di privazione di diritti e libertà fondamentali possa sembrare qualcosa di eccezionale ed inaudito per la sua gravità, essa ripete un pattern che nel corso dei secoli è rimasto immutato, cambiando solo strumentario e modalità. Quello che l’agenda dell’ultimo Forum di Davos ha chiamato con il nome del Grande reset, in teoria (e in pratica) sarebbe l’ultima Palingenesi – un periodico azionamento di un azzeramento, allo scopo di ottenere rinnovamento, rinascita, rigenerazione, che funge da propulsore selettivo dell’evoluzione sociale. Un’evoluzione che, come sappiamo, non è paragonabile a quella naturale, pur essendo soggetta alle stesse forze interne ed esterne. Anche nella società, come nei sistemi naturali, agiscono dei predatori ma, a differenza del mondo animale, i predatori sociali, che sostanzialmente sono i fautori del grande business, conquistano previamente l’opinione pubblica, invece di metterla in allerta come accade in natura, abituandola a colpi di fatti compiuti, senza che essa possa reagire e difendersi per istinto innato.
La peculiarità della società umana è nel consenso sociale che si instaura fra i vari piani della sua struttura e che si radica proprio nella repressione della natura istintuale dell’essere umano. Non possiamo analizzare la palingenesi sociale senza entrare nel merito di un tema lungo e complesso, che è quello del processo bio-evolutivo dell’uomo. E’ un processo che unisce due percorsi contradditori, destinati a conciliarsi solo in soluzioni paradossali. Da una parte abbiamo il processo della domesticazione che, parimenti agli animali addomesticati dall’uomo, si manifesta nelle seguenti caratteristiche acquisite: 1) numerosi tratti morfologici di neotenia; 2) spiccata socievolezza; 3) preponderante tendenza all’assoggettamento. In questa sede non ci diramiamo sul dibattito in campo antropologico della natura della domesticazione, se auto-indotta o etero-diretta da terzi (quest’ultima è la tesi del top antropologo Roger Wescott), ma ci limitiamo a elencare i requisiti che dovrebbero essere presenti in una data specie affinché questa possa essere addomesticata con successo.
A differenza del semplice allevamento, che può essere applicato ad alcune specie selvagge, l’addomesticazione è un processo che plasma e modifica sostanzialmente nell’aspetto e nel comportamento il gruppo selezionato, il che non permette alla specie il ritorno a una libertà naturale anche con la cessione delle condizioni di cattività e del controllo da parte dell’uomo. Secondo l’antropologo Jared Diamond si tratta di un insieme di condizioni che permettono il buon grado, o il successo duraturo, di una addomesticazione:
– dieta flessibile, composta di alimenti disomogenei tipici sia per i carnivori che per gli erbivori;
– tasso di crescita ragionevolmente veloce da permettere interventi di selezione delle caratteristiche espresse negli adulti, quindi un periodo non tanto lungo per il raggiungimento della maturità;
– possibilità di riprodursi in cattività, adoperando varie tecniche di stimolazione, fra cui anche quelle di una maggiore stimolazione sessuale;
– temperamento mite e docile, con moderata o quasi soppressa capacità di reagire al panico;
– il riconoscimento di una gerarchia sociale: gli animali addomesticati devono essere capaci di riconoscere l’uomo come loro dominatore e leader;
– strategia di difesa sociale, o di gruppo: gli animali addomesticati non devono adoperare strategie di fuga individuali, che sono dispersive e mettono in difficoltà i predatori (in questo caso gli allevatori), ma dovrebbero avere l’istinto di appartenenza a una mandria, quindi raggrupparsi durante la fuga, dove la mandria seguirà il membro dominante (il leader interno) che potrà essere previamente preparato per spronare l’intera mandria nella direzione voluta dall’allevatore.
Tutti i requisiti elencati da Diamond sono perfettamente designativi della società umana, dove il riconoscimento gerarchico, cioè la leadership dell’allevatore, è rivestito semplicemente dalle autorità istituzionali e da chi occupa i gradi più alti della gerarchia sociale. E benché ci sia una palese sovrapponibilità fra il modello di allevamento addomesticato e quello della società umana, allo stesso tempo l’essere umano ha una caratteristica singolare che determina il suo tragico paradosso di non continuità: si tratta della singolare plasticità del cervello umano, dovuta all’espressione di determinati geni. In realtà si tratta di un carattere neotenico che permane attivo per quasi tutta la durata della vita, una sorta di protratta “immaturità” dell’organo celebrale che rende l’homo sapiens ricettivo agli stimoli e incline all’apprendimento anche quando viene superata la fase giovanile, a differenza di tutti gli altri mammiferi, dove questa capacità è riservata solo ai primi anni della vita.
È proprio la plasticità del cervello (della corteccia cerebrale), e non tanto il suo volume, a determinare nell’uomo la liberazione di una singolare energia mentale che possiamo chiamare in tanti modi – psiche, libido, (auto)coscienza, intelletto, ragione, spirito, personalità, volontà, sentimento – e che spiega l’esclusiva connettività dell’uomo, capace di creare schemi cognitivi dinamici e complessi, indisponibili per gli altri animali. Questo scarto di energia libera, libera perché in avanzo rispetto al mero funzionamento biologico, colloca l’uomo in cima della scala della vitalità di tutte le specie viventi, ma paradossalmente è proprio questa esuberante libertà psico-mentale ad essere stata ripiegata a una probabilmente mirata e coercitiva, nonché sempre più serrata addomesticazione, che prosegue attraverso le varie epoche e forme di organizzazione sociale.
Questa incompatibilità funzionale fra l’(auto)addomesticazione, da un lato, e la libertà psico-mentale, dall’altro, è destinata a produrre sia nel singolo che all’interno della specie (oltre che verso l’ambiente esterno) una costante tensione, da cui l’unica valvola di sfogo è la violenza: violenza intesa come volontà di imporre se stessi, la propria necessità, il proprio interesse e la propria forma mentis sugli altri, che nelle società più complesse è stata abilmente veicolata attraverso forme organizzate come quello della guerra. Forme che si consolidano a livello istituzionale come modo di essere collettivo, che contraddistingue tutte le società, tutte le civiltà, pur nella loro diversità geografica, culturale e di modello economico. Questo spiega perché il ‘Polemos’ era decantato ancora nell’antichità come il destino primo e ultimo dell’umanità, “la madre di tutto”, la sovrana assoluta (Eraclito), “una necessità sempre presente in natura, la forza ordinatrice della vita” (Platone). Mentre in una prospettiva razionale e di pianificazione strategica la guerra viene adoperata come il veicolante più efficace per imporre gli interessi dei vincitori e la laro cultura sulle popolazioni assoggettate, da un’altra prospettiva la guerra fornisce quella necessaria rottura che è l’unica modalità di elaborazione dell’accumulo dell’energia psico-mentale, spingendola verso il richiamo di una libertà istintuale perduta, inconscia quanto repressa, procurando nei protagonisti uno stato di beatitudine e pacificazione dei sensi. Qualcuno che aveva ben compreso questa necessità dell’elaborazione del conflitto interiore era Nietzsche che, riflettendo sul senso della vita, scriveva: “…E chi saprebbe ridere e vivere bene, senza intendersi prima di guerra e di vittoria?”
Dobbiamo però annotare che, implicitamente all’istituzionalizzazione della guerra come dispositivo resettante della società, nei gruppi umani è stata fin da sempre praticata la ritualità del sacrificio di sangue come donazione ai piani superiori della catena energetico-alimentare, quelli delle divinità, per intendersi, di chiunque natura esse fossero. Il sacrificio, nello stesso modo in cui viene praticato su animali di allevamento per celebrare tradizioni religiose, viene eseguito anche su esseri umani a favore di entità sovraumane. Il sacrificio umano fa probabilmente parte della storia di tutti i popoli agricoli dell’antichità, una pratica comune con cui per mano di sacerdoti e capi tribù venivano sacrificate giovani donne e bambini per garantire la fertilità del terreno. Sacrifici pagani che trapassano poi nella ritualità religiosa di sumeri, egiziani, assiri, indiani, fenici, etruschi, slavi, inca, aztechi. Ne sono prova anche i testi anticotestamentari, fra cui l’episodio di Abramo e il figlio Isacco che, anche se andato a lieto fine, rimane paradigmatico per la cultura ebraica. Spesso i sacrifici umani accompagnano le guerre sia come riti propiziatori che come eccidi di purificazione, abbattuti sulle popolazioni che avevano perso la battaglia.
In questo senso possiamo dire che in ogni società agisce un substrato arcaico ed ancestrale di concezioni punitive e sacrificali che, oggi come ieri, offrono un terreno fertile su cui innescare i vari emergenzialismi di ricapitolazione. Fino a pochi decenni fa la forma più consuetudinaria di emergenza era la guerra, tanto è che abbiamo ancora di fresca memoria l’esempio delle guerre nazionali della prima metà del secolo scorso, che strutturalmente avevano coinvolto nella loro causa le intere società. Ma se da un lato i leader nazionali riuscivano a riunire le maggioranze intorno a un’idea, un sentimento, un ideale di grandezza della propria nazione, da un altro lato sul campo di battaglia venivano sacrificati i soldati estratti demograficamente dalle fasce più giovani e virili, fisicamente più forti e resistenti, ma anche più dotati di coraggio e di eroismo. È come se le guerre dovessero rendere alla storia umana un sacrificio di vitalità e di quintessenza eroica, oppure, come con l’instaurazione dei regimi comunisti, il sacrificio della parte più colta e fiera della società, quella dei dissidenti. A differenza dei sistemi naturali, dove i predatori collaborano con l’evoluzione della specie predata, eliminando gli esemplari più deboli, nelle società umane, attraverso la prassi bellica e le rivoluzioni, si verifica un sistematico sacrificio degli uomini migliori, nonché l’assoggettamento di ogni popolazione (nazione) sconfitta alle regole del vincitore, il che a lungo andare non può che determinare un peggioramento antropologico della specie, ma ciò vale anche per la selezione delle sue élite. Paradossalmente si verifica una progressiva devitalizzazione psico-fisica delle generazioni successive, una pressione selettiva delle caratteristiche del conformismo e della non-conflittualità, perfino del desiderio autoinflitto di misure di contenimento e limitazione – le perfette condizioni di un ulteriore livello di addomesticazione delle società post emergenziali.
Dal punto di vista delle élite, invece, laddove la guerra era la fonte di legittimazione del potere, nei tempi di pace essa è sostituita dalla ‘pacifica’ prevaricazione della corruzione (passiva e attiva), che raccoglie un vasto consenso sociale grazie a forme quasi istituzionalizzate che dissimulano la sua gravità penale. Oggi la corruzione può essere chiamata con i nomi di “finanziamento” o “investimento”, oppure “lobbying”,”consulenza” o “competenza”, il che non esclude il suo bisogno di una ulteriore copertura ideologica. Nel macro conformismo al processo di mondializzazione, guidato dalle grandi corporazioni private, l’allontanamento dai principi di sovranità e interesse nazionale ha fatto sì che le élite dei singoli paesi occidentali non avessero più l’autorità che avevano i leader dei nazionalismi per convincere le giovani generazioni a sacrificarsi nel nome delle loro idee di società futura, oltre che per i loro interessi. Motivo per cui sono state escogitate forme impersonali e ben più raffinate di persuasione, come lo è l’ultima ideologia del civismo superlativo. Il nuovo moralismo civico, fondato perversamente sulla fiducia nella scienza e nei dettami degli esperti, pretende di essere l’unico pensiero legittimo, abolendo al contempo il pensare come processo. Esso si giustifica con l’urgenza degli obbiettivi da perseguire (economia green, digitalizzazione, omologazione tecno-sanitaria della popolazione, decostruttivismo identitario), per cui vuole scavalcare la lentezza della riflessione pubblica e del dibattito parlamentare, retaggio dei sistemi democratici. La nuova etica civica, personificata da governi sostanzialmente tecnocratici, non si basa più su principi di diritto, dati empirici e studi umanistici; essa detta al singolo, parimenti a come faceva la propaganda nazionalista con i soldati di leva, di assumersi il rischio di perdere la propria vita come segno di altruismo, nel nome del bene comune, senza voler definire né i concetti di base, né il senso razionale dell’adesione richiesta.
Benché nel campo geopolitico occidentale lo scontro fra gli Stati nazionali non è più possibile, visto che gli eserciti interni rispondono alle stesse autorità sovranazionali, diventa sempre più remota anche la possibilità di una rivoluzione interna, soffocata prima dal dispositivo della felicità consumista e dopo dal consenso trasversale che ha cancellato la lotta di classe. La nuova ideologia unisce attorno al senso del giusto sia poveri che ricchi, li rende ugualmente ‘giusti’ in quanto portatori degli stessi valori di una società purificata dal dolore e dall’imprevisto, tecnologica e impersonalmente controllata. Per quanto una cultura possa avere una forma mentis simbolicamente appiattita, nei singoli individui agisce inevitabilmente la figura escatologica dell’apocalisse: ogni generazione si crede l’ultima e perciò destinata a vivere un evento trasformativo di misure colossali che la vedrà protagonista di una elevazione miracolosa, e quindi ogni individuo si crede meritevole di esserne testimone o di fare parte dei superstiti perché sta dalla parte giusta. Il mito del Diluvio universale è sempre attivo – la prima Palingenesi, il primo Grande reset di cui l’umanità ha memoria, dove Noè, insieme alla sua famiglia, è stato scelto come patriarca del nuovo mondo perché un uomo “retto“, giusto e integro che “camminava con Dio”. Ma chi è il Dio che dovrà decidere i meritevoli che popoleranno il nuovo mondo?
Oggi abbiamo una Palingenesi in cui Moralismo ed Affarismo agiscono in perfetta sinergia, il che rende superfluo il dibattito sull’esistenza o meno di un accordo cospirazionista fra le varie entità altolocate, in quanto le due linee, pur trovandosi uniti da motivazioni diverse, a volte perfino opposte, condividono allo stesso modo l’euforia del ‘worst case’ (tanto peggio tanto meglio), perché la catastrofe pandemica – provocata e/o invocata – per gli affaristi favorisce il saccheggio, mentre per i moralisti è la redenzione necessaria che li eleverà a sacerdoti della nuova religione pandemica. Ma quello che ancora sfugge ai fautori della nuova Palingenesi, quella lezione che non hanno imparato dalla storia ma che senz’altro stanno avvertendo, è che ogni forzatura dei processi naturali, benché all’interno della società, crea un sistema-trappola che tiene stretti nella sua morsa sia le vittime che i suoi fautori, accelerando il declino proprio di quest’ultimi.
09 Luglio 2021
Zory Petzova