Ogni società, in quanto organismo composto, tende a manifestare le stesse dinamiche psicologiche che si possono osservare a livello personale, e ciò vale sia per le patologie cliniche che per le manifestazioni di natura sessuale. Senza dubbio, la più diffusa patologia collettiva è l’isteria di massa, seguita dalla paranoia che ha contraddistinto l’ultimo secolo. Mentre oggi, nel contesto di una società femminizzata, guidata da un’élite sostanzialmente molle ed amorfa, la patologia più ricorrente, che nemmeno le emergenze sono riuscite a ridimensionare, sembra essere l’esibizionismo, la dimostrazione del proprio privato, grazie anche all’uso dei dispositivi digitali, i quali, maneggiati come giocatoli, inducono infantilismo e superficialità.
Oggi, nonostante l’imposizione di un’identità collettiva emergenzialista, il singolo si occupa sempre più ossessivamente di Sé, credendosi l’oggetto e la fine di tutto, persino di un sistema d’organizzazione totalitario (da ricordare l’esibizionismo sanitario). L’esibizionismo, che ha le sue premesse nel disturbo narcisistico di personalità, crea un’auto-procreazione in un presente seriale e perpetuo, senza continuità con il passato né promesse per il futuro: una specie di bolla, dove ognuno diventa l’oggetto del proprio desiderio di potenza, pretendendo di sfuggire alle conseguenze delle proprie parole ed azioni. Questo è ciò che si è avuto come esempio – da ritenerlo quasi un caso da manuale – con il recente ‘scandalo’ di Sanna Marin. In realtà, si tratta di un caso propedeutico che, anche se rappresentativo del profilo di esibizionismo patologico, supera la fattispecie per consacrare culturalmente la protagonista a una vera e propria icona della soft power del femminismo.
A primo giudizio, le indiscrezioni sulle trasgressioni mondane della premier finlandese, scandalose né più né meno di quelle di altri capi politici, potevano essere interpretate come lo svelamento della sua inadeguatezza politica, del gap fra la sua reale personalità e la carica istituzionale che riveste, e per la quale sembra sia stata promossa da noti ambienti sovranazionali. Ma a pensarci meglio, si comprende che si tratta tutt’altro che di un atto compromettente per mano di qualche hacker, bensì della giusta occasione colta dai media per consacrare un modello sociale che si è fatto dominante e che ha a che fare con il potere conferito alle donne.
Dopo la “cultura rigida” degli anni trenta, la femminilizzazione della società è stata un atto necessario, fino a che non è caduta nell’eccesso opposto, e più che promuovere la parità dei diritti e la svirilizzazione delle relazioni sociali, non abbia invece cercato l’abbattimento simbolico del ruolo del padre e l’indistinguibilita dei ruoli sociali maschile/femminile. Qualcosa che nell’educazione dei figli ha portato all’annullamento della distinzione fra sfera famigliare/affettiva e sfera sociale, impedendo al bambino di uscire dall’onnipotenza desiderante e narcisista (funzione materna) per darsi limiti e auto-disciplina e iscriversi al contesto socio-storico (funzione paterna). La stessa cultura dell’esibizionismo, conseguenza di tale trasformazione educativa, tende a banalizzare le differenze fra i sessi perché favorisce la promiscuità degli orientamenti sessuali e la trasgressione, tutto ciò che suscita attenzione e curiosità. Anche se, in realtà, l’effetto più erosivo della cultura dell’esibizionismo è quello di dissimulare le differenze economiche e le diseguaglianze sociali, e questo grazie alla pratica del vittimismo: un vittimismo ostentato, con cui i privilegiati, attraverso la messa in scena del proprio privato e di presunti drammi e debolezze umane, vengono percepiti dal pubblico come persone comuni, persone che hanno problemi e tormenti come “tutti noi”, per cui meritano indulgenza e comprensione.
Parallelamente alla femminizzazione, quasi naturale, di una serie di professioni – insegnanti, psicologi, assistenti sociali, magistrati -, è stata femminizzata anche la politica e le posizioni dirigenziali, ma la durezza imperativa maschile, evacuata dal discorso pubblico, è ritornata con maggiore forza sul fondo, con l’aumento della violenza privata e della repressione sociale sui più deboli. La femminizzazione della sfera sociale doveva avvenire con i propositi di creare un mondo migliore, in cui imperano la giustizia e il bene. Ma siamo sicuri che i valori tipicamente femminili siano davvero positivi, a maggior ragione se assunti anche dagli uomini?
Della femminizzazione della società testimonia già la prevalenza dell’economia sulla politica, e le origini dell’economia, come implicito nella stessa etimologia del concetto “oikos”, sono legate all’amministrazione della casa – un attributo e una mansione congenialmente femminili. E se le guerre condotte dall’Occidente negli ultimi decenni hanno per lo più ragioni economiche o/e di lobbying militare, e non ragioni politiche, non possiamo nemmeno dire che la femminizzazione della società sia garanzia di pace. Fatto ancora più evidente dall’atteggiamento belligerante delle donne al potere, la cui lista è esorbitante non tanto per il numero dei nomi quanto per il peso qualitativo della loro intenzionalità, e basterebbe fare il nome di Hillary Clinton per dare la misura del problema, emulata recentemente dalla Marin come l’antagonista femminile di Putin, anche se la posizione al top sembra essere riservata alla nuova premier britannica che si è detta pronta ad usare le armi nucleari per prima. Una volta al potere, per confermarsi come degne e meritevoli, le donne tendono a strafare e ciò le rende più estreme dei maschilisti.
Volendo proseguire con gli esempi, nella stessa logica di femminizzazione vanno interpretati il primato del consumismo sulla produzione, della discussione sulla decisione; gli status symbol del perbenismo e della carità mediatica; l’accento messo costantemente su problemi di salute, sessualità, procreazione; l’ossessione dell’apparenza, del voler-piacere e della cura di sé; la messa in pubblica piazza di temi intimi e confidenziali; la sentimentalizzazione dell’eros; la moda dell’ideologia vittimistica; la moltiplicazione delle unità di sostegno psicologico e la psicologizzazione dell’infanzia; lo sviluppo del mercato dell’emozionale e del gossip; la enfatizzazione della coppia e dei “problemi della coppia”; la commercializzazione dei social attraverso le figure di influencer promotrici di consigli d’acquisto e di shopping compulsivo. Frutto della femminizzazione è lo stesso scientismo di ultimo grido in quanto affermazione del primato del dogma e del pensiero magico sul rigore del metodo scientifico e dell’approccio razionale; la pretesa verso lo Stato di fare leggi per validare costumi o situazioni soggettive, legalizzare pulsioni o dare una garanzia istituzionale al desiderio, cosa che non spetta allo Stato. E infine, è femminizzazione anche la globalizzazione, la sparizione di frontiere, strutture e punti di riferimento stabili, compresi anche quelli della sessualità biologica, in un mondo fluido e infinito come il liquido amniotico di una dea madre.
La pandemia ha reso palese che, paradossalmente, la femminizzazione della società stava andando a pari passo con l’invasione dell’apparato terapeutico di tecnici ed esperti nella sfera della salute individuale, e quindi nel corpo umano – inviolabile per principio. È donna e madre colei che, unica al mondo, da ministro della salute ha reso obbligatori tutti i vaccini pediatrici. Sono state le donne le sostenitrici più convinte e insistenti della recente campagna vaccinale e dell’obbligo vaccinale, portando i loro figli ad assumere un farmaco sperimentale, qualora per quest’ultimi non esistesse alcun rischio di una sintomatologia grave. Le donne collaborano più degli uomini alla medicalizzazione dell’esistenza perché la loro maggiore ansietà e irrazionalità le fa accettare più facilmente qualsiasi narrazione imposta dalle autorità, e da lì anche i rispettivi metodi di sorveglianza e di controllo, come se questo clericato sanitario e di sicurezza potesse rendere lo Stato più materno e più distributore di azioni di sostegno.
La femminizzazione della società nel contesto emergenzialista non è più questione di scontro fra i generi, qualcosa che sarebbe auspicabile, visto che lo scontro è segno di vitalità, è dialettica e a lungo andare evoluzione. In quanto oggetto di ingegneria sociale, essa è pensata come abolizione di ogni tipo di scontro sociale e di rivoluzione, grazie alla svirilizzazione dei conflitti di classe. È pensata per assicurare la maggiore mollezza psicologica e accondiscendenza con il pensiero unico, la maggiore plasmabilità verso l’appiattimento antropologico, che di seguito sarà reso funzionale agli scopi arbitrari dell’élite e determinerà il vero totalitarismo.
Facendosi, giustamente, portatrici del discorso della discriminazione salariale, allo stesso tempo le donne, anche da sindacaliste, obediscono alle leggi del mercato, il cui scopo è l’accumulo infinito di lucrosi ricavi da investimenti, ossia rendere i ricchi sempre più ricchi. Lasciandosi complici del capitalismo sovranazionale, le donne della sfera politica fanno venire meno le istanze di un socialismo democratico, mentre rendono tangibili le prospettive di un capitalismo totalitario. Un esempio ne è proprio l’Ecologia, la lotta contro l’inquinamento che, rivestita principalmente da figure femminili, non diventa terreno di lotta contro il capitale – la causa dei problemi ambientali, bensì un mezzo che ne accelera la ristrutturazione. La finanza internazionale usa i meccanismi della soft power e pur essendo investita maggiormente da uomini, si tratta di uomini effeminati, senza qualità oggettive, che amano le subdole trame e le mistificazioni, la speculazione e il ricatto. Le teorie economiche femministe, invece di insistere sui finanziamenti strutturali a favore della maternità, la cui durata naturale è di tre anni, incoraggiano le donne a ritornare subito al lavoro, favorendo in questo modo l’esproprio affettivo dell’infanzia attraverso l’asilo nido, seriamente sconsigliato dalla stessa pedagogia.
Per quanto il lavoro femminile sia indispensabile per l’emancipazione delle donne, in realtà esso contribuisce al ribasso dello stipendio degli uomini, in una tendenza generale di ribasso del costo del lavoro: l’80% delle persone che lavorano per un salario inferiore al minimo contrattuale sono donne. Dal punto di vista della cultura delle relazioni sociali, a quanto sembra, la femminizzazione della società e il ruolo preso dalle donne nel mondo del lavoro e delle istituzioni non ha reso gli individui più affettuosi, più tolleranti, più attenti all’altro, ma soltanto più ipocriti, e forse anche più isterici. La manifestazione più diffusa e dominante nella società occidentale è proprio l’ipocrisia, codificata nella dissonante neo-lingua del politicamente corretto. D’altronde, è risaputo che la soft power sia molto più pervasiva, erosiva e perdurante della hard power, e latentemente anche più pericolosa e distruttiva.
03 Settembre 2022
Zory Petzova