Nella sua genesi e nella sua evoluzione la società umana è un processo di scissione dell’insieme, che inizia con la separazione dalla natura e prosegue con la conflittualità all’interno di una lunga catena di divisioni antitetiche, che di volta in volta determinano le dinamiche di forza e le rispettive configurazioni di ordinamento sociale. Alla luce della conoscenza antropologica, l’antica massima “divide et impera” appare non solo come uno strategico espediente del modo di governare le moltitudini, ma come l’elemento fondante della conoscenza della natura umana, della sua innata dicotomia presente già nell’anatomia del suo organo di comando – il cervello, nettamente diviso in emisferi destro e sinistro. Un particolare anatomico che ha indotto lo psichiatra svizzero E. Bleuler (1857-1939) a coniare il termine schizofrenia (dal greco schizo– diviso, frèn– cervello) per indicare i disturbi dissociativi più gravi.
Oggi è noto che la capacità di linguaggio e della percezione immediata degli stimoli risiede nella parte destra, mentre quella della logica e dell’elaborazione analitica – in quella sinistra, per cui il funzionamento ottimale del cervello viene garantito dalla connettività plastica e dinamica fra i due emisferi. La spiegazione clinica sulle cause della schizofrenia rimane tutt’oggi vaga e incerta, anche se i modelli descrittivi delle varie scuole psicologiche e neurologiche forniscono lo stesso elenco per quanto riguarda i sintomi: difficoltà emotiva e mancanza di reattività; appiattimento affettivo e associazione ridotta di pensieri e idee; idee fisse e pensieri ossessivi; apatia e depressione; allucinazioni e delirio; aumentata aggressività e propensione all’autolesionismo. E’ molto indicativa la scelta della scuola giapponese di dare un nome più moderato alla schizofrenia chiamandola ‘disturbo di integrazione’, ma in questo modo la schizofrenia si avvicina molto agli standard di normalità, perché viene a indicare la diffusa incapacità della cognizione umana di elaborare un contesto e di integrare i vari aspetti della realtà, sé compresi, in un quadro simmetrico e coerente. La vaga conoscenza delle cause della schizofrenia porta a pensare che la schizofrenia potrebbe essere innata (originaria), ma anche successivamente indotta (acquisita) attraverso apposite tecniche di comunicazione, fra cui quelle che creano dissonanza (incoerenza logica) o dissociazione, che impoveriscono il linguaggio, e da lì portano a una frammentazione cognitiva con i conseguenti disturbi del comportamento, indicativi della schizofrenia clinica.
In teoria, la dicotomia dell’essere umano sarebbe funzionale alla sua evoluzione a condizione che da una divisione antitetica si procedesse a uno sempre più elevato grado di unitarietà. In questo ordine di logica nasce anche il concetto di Platone di dialektikè (l’arte di dialogare) per dare merito non solo all’abilità di argomentare e di discutere (logica e retorica), ma anche alla capacità di creare un’unione fra tesi e antitesi, fra gli opposti che nel confronto si integrano per raggiungere la qualità di una nuova sintesi. Ma benché questo tipo di dialettica può appartenere alla dimensione interiore/intellettiva dell’individuo (solitamente è nel pensiero che si compie), la dimensione sociale rimane dominata dalla separazione e dal costante antagonismo fra le parti, tanto è che fin dall’antichità il conflitto, il Polemos (scontro, guerra) è stato elevato a dispositivo ontologico: il motore provvidenziale che genera e spinge in avanti l’andamento della storia.
Sembra un paradosso che il processo che definiamo ‘storia della civiltà’, ossia l’accrescimento delle capacità di organizzazione sociale, possa scaturire dalla divisione e dalla riduzione dell’informazione confluente nella società, di quel farsi parte dell’intero per opporsi al resto, ma bisogna accettare la premessa che la fenomenologia umana sfugge alle leggi che governano i sistemi naturali. Mentre in natura, in biologia, osserviamo un processo di ascensione olistica (gli stormi di uccelli, ad es.), dove la maggior complessità determina anche la migliore funzionalità e auto-organizzazione dei sistemi, i sistemi umani rischiano continuamente il caos e l’entropia ogni qualvolta ci sia un ampliamento della rete di interazioni, per cui, ai fini di stabilire un equilibrio, a una maggiore complessità quantitativa deve corrispondere un maggior grado di divisioni e di frammentazioni qualitative. L’esigenza di normare, schedare, classificare la realtà per separazione riguarda tutte le sfere di competenza sociale: da quella politica, economica, istituzionale, commerciale a quella culturale e quella della conoscenza scientifica che abbonda di frazionamenti specialistici. Ma l’esigenza di classificare, di creare categorie e profili investe in particolar modo la scienza psicologica, quella che studia l’elaborazione delle emozioni e della paura, ed è proprio nel campo psicologico che si colloca l’ultima divisione che ha interessato e segnato in modo radicale la società, e che entrerà a fare parte dei manuali di studio – quella originata dalla gestione della pandemia da Covid-19.
In realtà, molto prima della scoperta della schizofrenia (la prima casistica risale alla fine del Settecento), il potere aveva già imparato a usare la divisione fra i sudditi per imporre in maniera incontrastabile il proprio dominio. Forse per i potenti non è stato mai un segreto il fatto che contrapporre continuamente gli individui fra di loro rende quest’ultimi molto più vulnerabili, suscettibili e debilitati nella capacità di pensare e di opporre resistenza al potere, e che solo in questo modo loro, i potenti, potevano permettersi di dominare le moltitudini, avendo una quantità numerica infinite volte inferiore al numero dei sudditi. Non è escluso che la celebre locuzione latina “dividi e impera” fosse la sintesi di una conoscenza molto più antica sulla natura umana. La psiche umana entra in crisi non soltanto quando l’unità mentale viene costretta alla scelta fra due qualità opposte senza la possibilità di integrarle, ma anche quando la mente non riesce a far comunicare in modo armonioso le parti del corpo e a connettere fra loro i diversi livelli energetici che lo compongono, da dove ne consegue anche l’incapacità di relazionarsi con il mondo circostante (la natura) e con i propri simili (la società). Questa problematicità forse ha le sue radici nella contrapposizione più antica e invalidante – quella fra l’uomo e la donna, imposta ad opera di religioni monoteiste e veicolata da modelli culturali fino ai nostri giorni.
Negli ultimi decenni, alla ben consolidata binarietà politica fra destra e sinistra (che permane formalmente anche quando le rispettive forze politiche diventano interscambiabili o allineate nelle loro scelte e azioni), è stata aggiunta una sempre più drastica spaccatura verticale (economica) fra ricchi e poveri, mentre su piano orizzontale (consuetudinario) in tanti luoghi del mondo sono aumentati i conflitti di ordine religioso e culturale, contrapponendo le rispettive frazioni e popolazioni anche su piano geopolitico. La fedeltà a un partito politico, che spesso riflette una radicata identificazione ideologica, anche se pretende di essere un’acquisizione culturale, ricorda molto la tifoseria sportiva e fa capire che il problema di fondo è il bisogno di assecondare una separazione interiore, giustificando questa pulsione con l’esistenza di un avversario, di un nemico. Nella società occidentale, alle vecchie divisioni partitiche e ideologiche, negli ultimi anni si sono aggiunte nuove contrapposizioni di ordine politico-culturale, come quella fra globalismo (mondialismo) e antiglobalismo (sovranismo) – a seconda dei riferimenti valoriali, e non solo territoriali; quella fra complottismo e anticomplottismo – a seconda del grado di fiducia nelle autorità e le fonti ufficiali d’informazione; e, nel contesto dell’attuale emergenza sanitaria, quello fra collaborazionismo e negazionismo – a secondo dell’adesione o meno alla narrazione ufficiale della pandemia e l’interpretazione dei rispettivi dati.
Tuttavia, non possiamo non riconoscere il primato di ruolo di divisione sociale al dominante pensiero unico, quello del ‘politicamente corretto’ – antitesi del pensiero empirico e oggettivo, con la strumentale elaborazione di una neolingua che, nell’impossibilità di cambiare le evidenze, cambia la narrazione e la stessa percezione della realtà, compresa quella storica. Si tratta di una versione più sofisticata della ben conosciuta propaganda politica della sinistra, a cui metodologia è stata ispirata anche la rappresentazione mediatica dell’ultima pandemia – evento comunicato maggiormente con le tecniche di persuasione di un’ideologia che con l’illustrazione realistica e scientifica dei dati empirici. Il pensiero politicamente corretto – che trae origini dal decostruttivismo francese degli anni 70, approdato e lievitato negli Stati Uniti per ritornare poi in Europa a partire dagli anni ‘90 – arriva alle sue massime espressioni quando, per colmare il proprio vuoto ideologico, la cultura di sinistra si concentra principalmente sulle questioni biologiche di razza e di identità sessuale. Promuovendo attivamente la piattaforma gender, il ‘politicamente corretto’ riesce a creare una contrapposizione quasi belligerante fra la sessualità etero e la sessualità homo, cercando di svantaggiare la prima e a favorire il dominio culturale della seconda. A questo viene aggiunta la sistematica colpevolizzazione dell’uomo bianco, a cui viene imposta l’autoflagellazione per lo stesso fatto di essere nato bianco, creando, attraverso le premesse antirazziste, un esasperato razzismo all’inverso – tendenza che porterà progressivamente la società occidentale a un inedito declino antropologico.
A questo quadro si aggiunge la divisione, che forse possiamo definire una vera e propria biforcazione antropologica, creata dall’ultimo ‘evento trasformativo’ – quello della pandemia. Le misure restrittive di diritti e libertà, imposte a causa dell’emergenza, hanno delineato fin da subito la spaccatura fra le due principali categorie psicosomatiche, che sono anche modelli cognitivi – quella di chi è maggiormente ansioso e soggetto alla paura e al panico, e quindi anche al condizionamento da parte delle autorità, e quella di chi applica maggiormente il discernimento e lo scetticismo nei confronti dell’informazione mainstream, così come dell’operato delle autorità governative, in particolare modo quando quest’ultime dimostrano una palese incoerenza fra parole e azioni. Il senso critico di chi usa la ragione e l’approccio razionale per valutare i vari contesti lo rende incompatibile con chi prende per veritieri ogni messaggio e decisione provenienti dalle autorità solo perché ha bisogno di credere nella loro bontà, nella loro funzione protettiva e paternalista, come in una specie di pensiero magico che attenui l’ansia e l’angoscia del futuro.
Quest’ultima categoria è rappresentata in gran parte sia da persone ipocondriache, che in assenza di un’epidemia sfogherebbero la propria ansia su altri aspetti della salute, che da persone che nutrano un’incondizionata fiducia nelle istituzioni e nel paradigma scientifico dominante, prendendo per benefico tutto ciò che ne deriva, senza porsi mai la questione dell’utilità, della sicurezza o dell’aspetto etico delle nuove conquiste tecno-scientifiche. Tale divario è ulteriormente aggravato dalla campagna vaccinale presentata dalle autorità politiche e sanitarie e dai media come l’unico contrappeso all’epidemia – il nuovo imperativo che vede la categoria degli ipocondriaci aderire prontamente anche ai dettami di obbligatorietà vaccinale, senza prendere in minima considerazione il fatto degli enormi profitti economici lucrati dall’industria farmaceutica, e nemmeno il fatto dei pericoli, accertati e sconosciuti, di un trattamento genico dichiarato sperimentale.
Ma il problema di tale divisione sociale è ben più complesso, perché se in una emergenza sanitaria di origini accidentali/naturali la divisione fra le varie tipologie psicologiche si sarebbe attenuata in una reciproca tolleranza nel nome della convivenza, in una pandemia che si preannuncia il paradigma della società futura, per cui siamo stati avvertiti fin da subito che “nulla sarà come prima”, tale compromesso non è possibile come soluzione. Nel verificarsi degli estremi di una dittatura sanitaria, la convivenza fra chi, per paura o altri motivi, si affida ciecamente alle autorità, identificandosi in ogni loro ordine, e chi, invece, si fida della propria ragione, non può avere luogo, perché questo comporterebbe che le persone di buon senso, emancipate nel pensiero, rischiassero di essere definite clinicamente pazze, cioè la non normalità, con le conseguenti discriminazioni e segregazione sociale a loro carico.
A differenza di altre fratture sociali, nell’attuale divisione creata dall’evento della pandemia ci troviamo di fronte non solo a due modelli diversamente imperniati nella percezione della realtà, ma al tentativo di una scissione anomala, con cui alcuni gruppi d’interesse – politici ed economici – cercheranno di rovesciare totalmente l’equilibrio sociale, collocando i sani di mente, le persone di buon senso e di capacità critica, nella posizione che fin ora era considerata clinicamente problematica – quella, appunto, degli psicotici, degli ipocondriaci, degli ossessionati del controllo (che sfocia in dispotismo o/e sociopatia), dei propensi alla sottomissione psicologica e all’isolamento fisico, avendo come motivazione e giustificazione il fatto del permanente pericolo sanitario, astutamente alimentato da media ed esperti di ambigua onestà professionale.
Si tratta dell’imminente pericolo che il disturbo psichico e la sottomissione incondizionata alle autorità diventino la norma, la normalità, e non più la deviazione, e purché ciò non accada, bisogna che l’attuale conflitto sociale si sposti sul piano giuridico, riabilitando princìpi costituzionali e di diritto internazionale, o quanto meno cercando soluzioni nel creare ordini di società parallele e indipendenti fra di loro. Quest’ultima è la tendenza che sta prendendo forma nella società statunitense, dove i contrasti fra i due schiarimenti politici, portatori di valori e di visioni del mondo essenzialmente antitetici, sono sempre più strutturati in separazioni amministrative e territoriali. Bisogna riconoscere che la società occidentale si fa sempre più polarizzata e desolante nelle sue crescenti scissioni, e se non dovesse essere riportata a quella naturale ed equilibrante conflittualità garantita dai sacrosanti principi di pluralismo, diritto di autodeterminazione, libertà d’espressione, autonomia d’impresa e procedure democratiche, ogni complementarietà antitetica sarà irrecuperabile, per cui la conflittualità assumerà sempre più le modalità ad oltranza, quelle di uno scontro escatologico.
© Zory Petzova
13 Marzo 2021