Gli ultimi scambi missilistici fra la Striscia di Gaza e Israele dimostrano che il relativo congelamento della geopolitica a causa della pandemia può essere finalmente revocato affinché la storia riprenda il suo consueto corso di ordinaria conflittualità. Sullo sfondo del complesso intreccio storico e politico del Medio Oriente, per gli osservatori esterni sarebbe del tutto superfluo esprimere una netta e decisa posizione pro o contro l’una o l’altra parte del conflitto, laddove le stesse dinamiche e ruoli cambiano di continuo e spesso un’azione politico-militare che nel passato avrebbe potuto essere giustificata, oggi, per altrettante valide ragioni, sarebbe indifendibile. Le sabbie mobili, di cui la regione medio-orientale è costituita, più che di qualsiasi altra realtà geopolitica richiedono di ponderare e analizzare gli accadimenti di volta in volta, perché spesso sulla scena troviamo configurazioni inaspettate, prive di precedenti storici e di ogni anticipazione previsionale.
Detto in altre parole, il Medio Oriente è per sua intrinseca natura il luogo dell’instabilità, che meno si presta a una contrattazione diplomatica e a una coerenza analitica, perché, per lo stesso temperamento e volontà degli Stati protagonisti, esso è difficilmente assoggettabile alle norme di Diritto internazionale, con una maggiore probabilità di trovarvi le consuete dinamiche dell’ipocrisia, tipica della grande politica, secondo cui i patti solennemente promessi non corrispondono mai alle intenzioni che di nascosto vengono pianificate e messe in atto. Descritto con l’ironia cinematografica di un vecchio film sovietico (Il bianco sole del deserto, 1970), il Medio oriente non è alla portata di tutti, perché è il luogo perfetto dove possono accoltellarti alla schiena mentre gentilmente ti servono una fresca bevanda alla sherbet.
Non è escluso che dietro gli ultimi inaspettati attacchi missilistici da parte di gruppi militari palestinesi (da intendere Hamas) contro Tel Aviv e la Città Santa, ci sia la regia della Turchia, da leggere come atto di attestazione della sua supremazia macro regionale. Per la Turchia ogni mossa sarebbe lecita affinché possa dimostrare il suo peso e statura nella complessa configurazione fra Israele, Russia, Iran, Cina e la Lega Araba nella contesa dell’Asia centrale (the Heartland), in una fase dove il ruolo degli Stati Uniti è sempre più ridimensionato, mentre quello dell’Unione Europea è quasi inesistente. Se la Turchia degli ultimi anni è sempre più dichiaratamente ispirata dall’idea del ritorno alla sua vecchia potenza di impero, bisogna anche ricordare che la “Terra promessa” fino a un secolo fa era sotto il controllo proprio dell’Impero ottomano, dove la maggioranza arabo musulmana, che abitava pacificamente quei territori, non disponeva di alcuna forma di organizzazione istituzionale. Man mano con la decadenza dell’Impero ottomano, il Medio Oriente viene ridisegnato dalla Gran Bretagna, che subentra per colmare la mancanza di un centro di convergenza regionale. La potenza britannica, costretta a prendere in considerazione il crescente movimento sionista (il nome nasce dall’altura di Sion, il nucleo originale della Città Santa), nel novembre 1917 si dichiara favorevole all’istituzione di uno Stato ebraico (la nota Dichiarazione Balfour). Con il Mandato di Palestina, che il governo britannico riesce ad ottenere, viene istituita per prima la Transgiordania (oggi Giordania), il che determina un forte esodo di ebrei europei verso le terre d’origine; incaricandosi della tutela dei primi insediamenti ebraici, la Gran Bretagna rassicura al contempo gli arabi presenti, ossia i palestinesi, cercando un compromesso fra le due realtà, come spetterebbe a una vera diplomazia.
Successivamente, i regimi fascista e nazista, accentuati dall’orrore dell’Olocausato, fanno intensificare il pellegrinaggio degli ebrei in Terra Santa, visto come un salvifico approdo nella terra degli avi, ma con ciò nascono anche i primi gruppi radicali per rivendicare l’identità palestinese del territorio. Poco duraturi sono i tentativi della ONU di ripartire nel 1947 il territorio fra i due Stati, cercando un ragionevole compromesso, in base a cui lo Stato ebraico avrebbe coperto il 55% della zona ospitando però 400 mila palestinesi, mentre in cambio lo Stato palestinese sarebbe rimasto meno esteso ma quasi integralmente musulmano, con Gerusalemme sotto controllo internazionale. Quando nel 1948 gli USA e l’URSS, in qualità di vincitori della Seconda guerra mondiale, riconoscono l’indipendenza dello Stato di Israele, Israele viene sfidato con la prima guerra regionale invocata dalla Lega Araba, insofferente al sionismo che considera un’ingerenza straniera. Questo sarà solo l’inizio di altri estenuanti conflitti militari seguiti nei decenni, sorprendentemente vinti sempre dallo Stato di Israele, nonostante esso disponesse di un decimo dell’attuale potenza militare, contro un’imparagonabile prevalenza numerica dei paesi arabi coinvolti. Ma se, secondo una millenaria consuetudine storica, la guerra è l’unica inderogabile fonte di diritto, in questa circostanza dovrebbe essere più che accettabile il fatto della continua espansione di Israele a discapito dei territori palestinesi. Ciò non toglie però il fatto che, benché le guerre possano essere placate, nulla può costringere alla riconciliazione entità sociali e politico-religiose che nutrono a vicenda un profondo rancore, così come nulla avrebbe potuto cancellare il sogno degli ebrei di riavere il loro Stato antico, distrutto nel primo secolo d.C., e il desiderio dei palestinesi di riprendere il controllo delle loro terre come prima dell’arrivo degli ebrei.
I successi militari e geopolitici ottenuti dallo Stato ebraico lasciano scontenti i palestinesi, motivo per cui, a partire dagli anni 80, viene innescato il conclamato terrorismo islamico per mano di gruppi radicali come Hamas e Hezbollah, che vediamo tutt’oggi, e l’intransigenza di Israele a contrastarlo e a rivendicare l’incolumità della propria popolazione, vedendosi costretto a ridurre tutto il territorio in un lager paramilitare. Quello che porta oggi una parte dell’opinione pubblica a dichiararsi simpatizzante con il popolo palestinese sono senz’altro le peggiori condizioni economico-sociali in cui versa la popolazione araba, in particolar modo quella dei territori controllati della Striscia di Gaza, ma, dall’altra parte, il popolo di Israele ha il sostegno di una buona parte degli occidentali, che si riconoscono nella forma democratica che esso ha saputo darsi, approvando i suoi indiscutibili progressi scientifici e tecnologici, che si riversano in un migliore standard di vita economico e sociale, oltre che in una preminenza militare. Ci siamo però mai chiesti cosa ne dice il Corano – fonte legislativa fondamentale per una buona parte degli Stati arabi – a proposito dell’attribuzione etnica della Terra Santa? Quante persona sanno che nella sua prima parte il Corano coincide con la Torah dei Figli di Israele, dove Allah è Yahweh, il mandante di Mosé, e che nei sura 5 e 26 la Terra Promessa viene esplicitamente attribuita al popolo di Israele: i discendenti di Abramo sono il popolo prescelto anche secondo il Corano. A livello di contenzioso geopolitico, come dovrebbe essere risolta una tale contraddizione con le fonti religiose, e quindi di teologia politica, professate sia da ebrei che da palestinesi?
Forse qualcuno un’idea l’ha avuta, dandone il nome giusto. Di fronte alle ultime scosse in Terra Santa, è stato poco apprezzato e poco mantenuto dalle diplomazie occidentali lo sforzo dell’amministrazione Trump di pacificare in modo equo e duraturo ebrei e palestinesi attraverso un patto simbolicamenete chiamato l’Accordo di Abramo (agosto 2020), con cui il presidente americano ha cercato di realizzare la pacificantre convergenza fra testi antichi e presente, riuscendo inoltre a instaurare, per la prima volta nella storia, rapporti diplomatici fra Israele e una parte dei paesi della Lega Araba, fra cui gli Emirati Arabi e Bahrain, e successivamente con Marocco e Sudan. Un patto astutamente in funzione anti Iran, sulla linea dell’opposizione sunniti/sciiti, perchè nella diplomazia seria ogni relazione (ri)costruita deve essere per conto di un altra peggiorata. Mentre Trump ha giocato sullo strategico per Israele indebolimento economico e geopolitico di Iran, l’agenda di Biden ha puntato sulla normalizzazione dei rapporti commerciali fra Usa e Iran in cambio del ripristino del patto di non armamento nucleare. La nuova agenda medio-orientale degli USA ha come priorità il respingimento della Russia dalla Siria e il ritiro delle truppe iraniane, dove la presenza militare americana non solo non sarà congedata ma probabilmente intensificata. A prescindere da questo, la pace nel Medio Oriente non dipenderà più solo dal grado di tensione fra Israele e Iran, ma anche da altri fattori, in quanto sulla scena si fanno avanti nuove rivendicazioni, motivo per cui a Israele conviene ridimensionare l’ossessione per i programmi nucleari iraniani e prestare maggiore attenzione ai piani nucleari della Turchia.
Oggi la Turchia supera potenzialmente l’Iran per crescita economica e sviluppo tecnologico, essendo favorita già solo per il fatto di non aver subìto alcun embargo, ‘accontendandosi’ solo del recente boicottaggio commerciale da parte di Arabia Saudita. Cruciale per gli equilibri del Medio Oriente è il patto di cooperazione fra Turchia, Azerbaigian e Pakistan, con cui ognuno dei tre paesi mira a rafforzare il proprio ruolo nella macro ragione di appartenenza. Formalmente l’accordo fra i tre viene giustificato dall’impegno di contrastare le violazioni dei diritti delle comunità musulmane nei paesi di maggioranza non musulmana, come in alcune regioni di India (Jammu e Kashmir) e la regione autonoma cinese di Xinjiang, ma sostanzialmente è volto alla conquista di posizioni strategiche sulla asse Asia meridionale – Mar Caspio – Mar Medditerraneo. Va specificato che il Pakistan è l’unico Stato islamico di statuto confessionale che dispone di armamenti nucleari e dei mezzi per il loro trasporto.
La triade Turchia-Azerbaigian-Pakistan costituisce un solido contrappeso anche in vista dell’accelerata collaborazione economica e militare fra la Cina e l’Iran, la quale, in caso di finalizzazione, porterà il dominio cinese nel Golfo Persico, rafforzando il corridoio fra Pechino e l’Africa orientale. Ma la Cina ha importanti patti di cooperazione reciproca anche con l’Israele nel settore delle alte tecnologie, fra cui tecnologie sensibili utilizzabili in ambito militare, così come ha il controllo di porti e infrastrutture israeliani. In questo modo la Turchia si configura in un inevitabile conflitto con la Cina per posizioni strategiche nel Mediterraneo, ma lo è anche a causa delle aspirazioni secessioniste delle minoranze turche (gli uiguri) in Xingiang, che costituiscono 46% della popolazione della regione cinese. Questo però non rende la Turchia automaticamente alleata degli USA in un eventuale conflitto fra Washington e Pechino, perché Ankara difende sempre e comunque solo il proprio interesse nazionale, a prescindere se in veste mondano kemalista o in veste islamico religiosa.
Questo fa sì che un giorno la Turchia possa essere alleata degli USA per prendersi il Nagorno-Karabakh dagli armeni, e il giorno dopo – loro avversario nella contesa di posizioni nell’est Mediterraneo o in Iraq; così come può essere in buoni rapporti con Israele nel conflitto con la Siria, ma il giorno dopo rifornire, attraverso il mar di Marmara, la striscia di Gaza con merci di ogni genere, armi incluse, a discapito di Israele. Ideologicamente divisa fra il pan-turchismo e il pan-islamismo, che simbolicamente possono essere raffigurati dalla montagna Tien Shan e il monte Ararat, la Turchia porta avanti entrambe le dimensioni attraverso un ambizioso e inarrestabile svipuppo economico, tecnologico e militare. In una tale configurazione di forze, l’unica chance per Israele, il cui controspionaggio aveva avvertito ancora dieci anni fa il proprio governo del pericolo turco, è quella di cercare di controbilanciare il fattore turco attraverso la contesa della leadership fra la Turchia e la Lega Araba, che corre sul filo della preminenza religiosa, dove comunque l’Arabia Saudita e l’Egitto vantano eserciti convenzionali, armamenti e pretese regionali altrettanto ambiziosi.
E se dovesse essere che, in mezzo a questa scacchiera di dimostrazione multilaterale di prepotenza esterna, la soluzione della perenne inquietudine di Israele dipendesse proprio dal suo interno? Per strana coincidenza, lo scoppio delle ultime violenze ha interrotto le trattative per la formazione di un nuovo governo che doveva mettere fine a un lungo stallo politico. Sembra che l’iniziativa di attacco da parte di Hamas abbia favorito la posizione di Netanyahu, il quale, oltre a rimanere in carica, riscuote in questo modo un maggiore consenso, perché, per consolidata esperienza, ogni volta quando c’è un attacco esterno, le divisioni interne vengono messe da parte nel nome dell’unità nazionale, dove con ‘unità nazionale’ si intende, ahimè, solo la componente ebraica della popolazione israeliana. Israele aspettava il suo “governo del cambiamento” ad opera dell’opposizione di sinistra, probabilmente fatto saltare perché avrebbe dovuto contare sull’appoggio parlamentare di un partito della minoranza araba – un fatto senza precedenti, anzi, con un precedente ben noto del 1995, quando l’allora primo ministro Yitzhak Rabin (Nobel per la pace) mantenne il proprio governo grazie al sostegno della componente araba, ma venne ucciso da un estremista israeliano.
E se il terrorismo palestinese e una certa leadership conservatrice israeliana fossero in simbiosi, pur dimostrando un’irreprimibile avversità? D’altronde Hamas ha sparato i propri missili non verso un unico obiettivo, ma verso punti diversi in modo da aumentare l’efficacia degli Iron Dome (il sistema anti missile israeliano), tanto è che le decine di missili lanciati da Gaza nelle ultime 24 ore hanno colpito zero obiettivi, il che però fa sì che il segregazionista Bibi Netanyahu rimanesse al potere, che Hamas aumentasse la propria popolarità e i rispettivi finanziamenti da reinvestire in armi, e che l’eroe della Palestina Mahmud Abbas continuasse a essere benedetto a Ramallah. Il terrorismo di matrice araba, che ogni volta fa molte più vittime fra i palestinesi (in quanto la rappresaglia israeliana è sempre sproporzionata), alla fine è la legittimazione perfetta affinché nulla cambi, fino alla prossima escalation, sempre possibile e sempre temuta.
In questa alternanza del conflitto, che così si prospetta senza soluzione, la duratura pacificazione del Medio Oriente non potrà avvenire senza che sia portato avanti l’intervento decisivo della Russia, la quale saprà dare sostegno e visibilità a leader che riescono a garantire la convivenza pacifica fra etnie e religioni diverse, leader della statura di al-Assad, in modo che possano essere individuati e limitati le forze politiche e i gruppi d’interesse transnazionali che vengono remunerati dal separatismo, dall’estremismo e dal caos seminato nella regione. In ultima istanza, gli attori principali, da cui dipenderà la scena medio-orientale, saranno la Turchia e la Russia, i quali rivestiranno gli schiarimenti già delineati dal conflitto sospeso fra l’Armenia e l’Azerbaigian.
Zory Petzova
16 maggio 2021